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Le condizionalità che salveranno l'Italia

Il coraggio da trovare sulle riforme a costo zero. Come il Recovery può mettere i corporativismi in mutande

Claudio Cerasa

Rendere più efficiente il sistema giudiziario, rivoluzionare la Pubblica amministrazione, semplificare la burocrazia e imporre nuove forme di concorrenza. Quello che serve al nostro paese per fare quel salto di qualità necessario per avvicinarsi all'Europa

Il cosa è chiaro, il come un po’ meno. Nelle 264 pagine contenute nell’ultima versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) inviato ieri sera dal ministero dell’Economia alla casella di posta elettronica dello staff del commissario europeo all’Economia – circa cinquanta pagine in meno rispetto alla versione pubblicata due giorni fa sul sito del governo – c’è un dettaglio importante che merita di essere isolato che riguarda il vero tema sul quale da giorni esiste un braccio di ferro politico tra il governo italiano e la Commissione europea: il clima. Nel caso specifico, il clima in questione non riguarda i temi ambientali ma riguarda un altro tipo di clima che costituisce forse l’elemento più ambizioso presente all’interno del Pnrr.

 

 

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, come in qualche modo ha ricordato ieri alla Camera Mario Draghi, prevede tre diverse tipologie di riforme.

 

Una prima tipologia riguarda le cosiddette “riforme settoriali”, contenute all’interno delle singole missioni e tutto sommato facili da monitorare – si tratta di innovazioni normative relative a specifici ambiti di intervento come le procedure per l’approvazione di progetti su fonti rinnovabili o come la normativa di sicurezza per l’utilizzo dell’idrogeno. Una seconda tipologia, anch’essa semplice da monitorare, riguarda le cosiddette riforme abilitanti, ovvero “gli interventi funzionali a garantire l’attuazione del Piano e in generale a rimuovere gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali che condizionano le attività economiche e la qualità dei servizi erogati”. La terza tipologia, più difficile invece da monitorare, è quella che riguarda la capacità futura dell’Italia di lavorare alle cosiddette “riforme orizzontali o di contesto”, che sono “d’interesse trasversale a tutte le missioni del piano” e che sono consistenti in “innovazioni strutturali dell’ordinamento, idonee a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività e, con esse, il clima economico del paese”.

 

E’ su questo punto che negli ultimi giorni si è andato a concentrare il braccio di ferro tra il governo italiano e la Commissione europea e non si può dire che i timori delle istituzioni europee siano del tutto peregrini rispetto alla capacità dell’Italia di riuscire a fare nei prossimi sei anni ciò che il nostro paese non è riuscito a fare negli ultimi vent’anni: rendere più efficiente il sistema giudiziario, rivoluzionare la Pubblica amministrazione, semplificare la burocrazia e imporre nuove forme di concorrenza. Sfide da far tremare i polsi che Draghi ha avuto il merito di mettere al centro dell’agenda del Recovery, insieme ai deficit di produttività, e i cui effetti saranno importanti anche per creare nel medio e lungo termine una crescita del prodotto interno lordo tale da permettere al nostro paese di poter governare nel futuro l’andamento del debito pubblico.

 

Il paradosso dell’Italia, che si trova sotto ai riflettori dell’Europa non per questioni legate ai capricci degli stati europei ma per questioni più pratiche legate alla consapevolezza che le future mutualizzazioni del debito europeo saranno possibili solo se l’Italia riuscirà a dimostrare di sapere utilizzare i soldi europei più per riformare il paese che per distribuire marchette, è che l’erogazione dei moltissimi fondi che arriveranno dal Recovery dipenderà non solo dalla capacità dell’Italia di essere credibile nell’utilizzo dei soldi europei ma anche dalla capacità del nostro paese di essere credibile nell’utilizzo del credito europeo per mettere mano a quelle che sono le più importanti riforme previste dal Pnrr: non quelle dispendiose, ma quelle a costo zero. E intervenire sulle riforme a costo zero significa avere il coraggio di fare quello che non sappiamo se neppure Draghi avrà la forza di fare: indicare quali sono le corporazioni che negli ultimi trent’anni hanno impedito all’Italia di fare quello che l’Italia promette di fare nei prossimi sei anni – sindacati specializzati nel difendere lo status quo, magistrati specializzati nel violare la separazione dei poteri, ambientalisti specializzati nel trasformare l’immobilismo nell’unica forma di legalità consentita  – e collaborare ancor di più con l’Europa affinché il Recovery plan contenga quello di cui l’Italia ha bisogno e che i partiti sembrano non volere: legare in modo chiaro, visibile, sistematico e pragmatico l’erogazione dei fondi europei anche alla capacità dell’Italia di creare un nuovo clima economico per il nostro paese. 

 

E quando alcuni pezzi da novanta della Commissione europea hanno fatto notare in questi giorni a Draghi la vaghezza eccessiva del percorso relativo al futuro delle riforme strutturali – a cominciare dalla giustizia, forse il capitolo più fumoso, vago e  sfocato del Pnrr – non si può dire che non abbiano colto nel segno. Il cosa fare è chiaro, il come farlo un po’ meno. E una volta trasformato il vincolo esterno dell’Europa in un asset strategico per cambiare l’Italia al governo non resterà che sfruttare quest’occasione per far fare al nostro paese quel salto di qualità – salto più politico che tecnico – senza il quale non ci sarà alcun Recovery Italia: smettere di chiederci cosa possa fare l’Europa per l’Italia e iniziare a chiederci cosa possa fare l’Italia per se stessa. E provare ad arginare i deliri corporativi del nostro paese vincolando l’erogazione dei fondi europei più all’attuazione delle riforme strutturali che alla loro semplice approvazione potrebbe essere l’ultimo tassello necessario per non legare eccessivamente il futuro dell’Italia al futuro di Draghi e per fare del Pnrr italiano qualcosa di simile a un piccolo libro dei sogni.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.