L'intervista della domenica

La maratoneta

Simonetta Sciandivasci

L'alba, il racconto della politica, le notizie, Mentana, i capelli crespi, Yasmina Reza, l'adrenalina delle dirette, la competenza, il pensiero corto. Conversazione con Alessandra Sardoni. 

Una volta Pippo Baudo ha detto: mi fa paura l’impreparazione, essere impreparato e parlare con degli impreparati. È la biografia perfetta di Alessandra Sardoni, giornalista (ma lo sapete). Una volta ho scritto su Twitter che merita il Quirinale e i Golden Globe, tutti, e per giorni ho ricevuto repliche entusiaste, cuoricini, stelline. Scrivevano tutti le stesse cose: è la più preparata, la più chiara, la più professionale, diamole un ministero, facciamola Papessa, nominiamola garante del paese. Il nostro non passerà alla storia come un tempo particolarmente felice per la competenza, ma i competenti, rari come sono, suscitano entusiasmi scalmanati.

 

Prima di diventare inviata di La7, dove conduce Omnibus e affianca Paolo Celata durante le maratone di Enrico Mentana, Sardoni ha lavorato nei quotidiani, è stata cronista parlamentare, ha condotto Otto e mezzo con Buttafuoco e Pace, ha scritto due libri, uno “Il fantasma del leader. D’Alema e gli altri capi mancati del centrosinistra” per Marsilio, e l’altro “Irresponsabili. Il potere italiano e la pretesa dell’innocenza”, per Rizzoli. Entrambi ancora attualissimi. Nel 2015 ha vinto il Premiolino. Prima di tutto questo, ha studiato filosofia del linguaggio con Tullio De Mauro.

Non è mai spettinata. Mai. Nemmeno quando piove e lei è in collegamento da Montecitorio, in strada. Possiede il dono dell’impermeabilità dei capelli, unica al mondo insieme alle francesi. Non è mai scomposta nemmeno quando Mentana la interrompe, le parla sopra, le chiede l’impossibile e noi da casa ci chiediamo come faccia a mantenere la calma, e certe volte scriviamo che Mentana è un po’ sessista, di certo grossier, forse perfino sadico.

 

Come lo sopporti?

Non faccio alcuna fatica. Anzi. Con me è sempre gentile, non ci ho neanche mai litigato. Mi rendo conto che da casa può sembrare che sia brusco perché mi interrompe, ma il pubblico non immagina, non potendolo sapere, che le interruzioni, durante un collegamento televisivo, sono inevitabili. Io stessa, quando conduco Omnibus, interrompo gli inviati. Chi sta in studio è un direttore d’orchestra e ha una sua precisa idea di come gestire gli interventi, che peso vuole che abbiano all’interno del suo schema. Sono una contrattualista e rispetto le regole d’ingaggio, che quelle interruzioni le prevedono eccome. Però sono anche inesorabile: se ritengo di dover dire una cosa, la dico. Aspetto il collegamento successivo. È il lusso delle maratone: durano così tanto che c’è sempre modo di tornare su un punto. Del resto, le volte che il direttore mi interrompe, non dimentica mai di dire: lo riprendiamo dopo. Ed è di parola.

 

Hai comunque una calma e una pazienza invidiabili.

Prima di tutto, ho imparato a trattenere l’agitazione concentrandomi sulle cose che seguo, che effettivamente richiedono un’attenzione totale. Questa stessa attenzione mi fa stare in uno stato di allerta continuo che però non mi dà ansia, ma mi restituisce la cognizione precisa del mio ruolo e questo è piuttosto adrenalinico. Sapere di avere un compito mi tranquillizza.

 

Come fai a non sbagliare mai?

Ma certo che sbaglio. Però Mentana è un fantastico interlocutore perché è rapido e ha un istinto spiccatissimo per le hard news, e questo mi facilita parecchio: so che riesce immediatamente a valorizzare e collocare qualsiasi notizia o elemento che gli do.

 

Ma non ti annoi in tutte quelle ore?

Non ne ho il tempo. La maratona è proprio come la vedono i telespettatori: senza soste. Io sono sempre collegata allo studio, anche quando non parlo, perché ho capito che è importante seguire il dibattito, di modo da non ripetere cose già dette in studio. In più, devo seguire quello che succede fuori, cercare persone con cui parlare. Quello che funziona di questo format, al di là della commedia dell’arte dove ognuno di noi è una maschera, è che mette in scena il backstage della diretta televisiva. Noi mostriamo tutto e, in questo modo, raccontiamo anche come si fa. Assistiamo al farsi della notizia e lo mostriamo. Io metto in scena un lavoro simile a quello delle agenzie: ho una notizia, vado in una certa direzione per cercare di sapere come sarà la giornata e racconto chi ho visto passare, chi ho incontrato, chi ho telefonato. Sono sempre in scena.

 

Oddio. Riesci almeno a mangiare? 

Non scherziamo: non ho mai rinunciato a un pasto in vita mia. Mangiare mi piace enormemente. 

 

Smette mai di essere avvincente tutto questo? Hai la stessa passione di quando hai iniziato?

A me piace il lavoro della prima linea, e quando facciamo le maratone sono in competizione con la prima linea e con le agenzie, vedo gli eventi nel loro formarsi e questo ancora mi fa sentire una privilegiata. Certo, negli anni ho assistito all’assottigliarsi dello spessore dei nostri politici, che ha coinciso con l’indebolirsi dei partiti, le cui strutture, prima, erano griglie dentro le quali c’erano spessore e sostanza, e questo di certo non ravviva il mio entusiasmo. Tuttavia, fare questo lavoro significa seguire il cambiamento e raccontarlo, anche quando è negativo. 

 

Il passaggio d'epoca c'è stato davvero o è stata una farsa? 

C'è stato nel 2018. 

 

Mi dai la tua definizione di giornalismo?

Capire le notizie, darle e offrire gli strumenti per ricostruire i fatti e il mondo in cui succedono. 

 

Pierluigi Battista ha detto che i giornali sono iperpoliticisti e questo li rende incapaci di comprendere la realtà nel suo complesso.

È vero, ma se da un lato sono iperpoliticisti, dall’altro mi sembra che, soprattutto in questa fase (mi riferisco alla pandemia), i quotidiani siano fatti di schede, e che gli articoli siano costruiti come grafici e contengano striminzite sfumature su cosa fa il governo. È cronaca ricavata da fonti istituzionali (il governo, le regioni): la politica è ridotta a micro racconti di fatterelli, litigi, alleanze, dimissioni, senza analisi, senza contesto. Quindi, forse c’è un atteggiamento iperpoliticista, ma essendosi la politica così impoverita e trovandosi in un sentiero stretto tra queste schede, tra quello che il governo e le regioni decidono di fare nell’emergenza, a tratti non sembra neppure politica. Ed è una tendenza che si è esplicitata nell’ultimo anno per via del covid, ma che c’era da prima: si leggono e raccontano le cose rispetto a dossier specifici, senza fornire una completezza di punti di vista e di fatti. La presa sulla realtà, lo spazio che dobbiamo cercare, è ciò che riguarda l’azione politica: come si sviluppa e dove sbaglia. E su questo mi sembra che ci dedichiamo troppo poco. 

 

Come mai i giornali parlano così poco ai giovani? Non credi che sia colpa anche della gerarchia delle notizie, sempre la stessa, che tiene fuori le cose che loro hanno più a cuore, concentrandosi prima di ogni cosa sulla politica?

E perché i ragazzi non dovrebbero avere a cuore la politica? La strada non è parlarne di meno perché non piace ai ragazzi, bensì da una parte far capire loro che investe e condiziona la loro vita, come quella di tutti, e dall’altra trovare una maniera migliore, più calda e più larga, per raccontarla. È chiaro che i pezzi con i virgolettati non hanno troppo senso: non conta tanto chi dice cosa, ma chi fa cosa. In Italia c’è una separazione molto marcata tra le generazioni, ed è una cosa piuttosto inquietante, perché mai come in questa epoca il mondo degli adulti e quello dei ragazzi sono tanto distanti.

 

Però è innegabile che il mondo degli adulti viene rappresentato, oltre che tutelato, molto di più.

Non si capisce perché dovremmo assecondare i giovani che non vogliono si parli di pensioni, credendo che sia un modo per non occuparsi di loro, senza capire che, invece, parlare di pensioni significa proprio capire che c’è un investimento eccessivo sui vecchi, a scapito loro. Lo ribadisco: le notizie sono le notizie, la gerarchia tradizionale con cui sono disposte e, soprattutto, scelte, segue criteri di oggettività. Dobbiamo essere più capaci di spiegare perché raccontiamo una cosa e non di cambiare oggetto d’indagine. Nella analisi di quello che si fa e non di quello che si dice risiede, peraltro, la possibilità del retroscenismo che, a differenza di quello che si dice, serve ancora e credo che servirà sempre.

 

Una cosa che mi colpisce quando le conferenze stampa vengono trasmesse in streaming è che il pubblico commenta sempre accusando i giornalisti di essere sdraiati.

In parte è vero. C’è un atteggiamento eccessivamente compiacente da parte dei giornalisti. Non sempre siamo preparati come si dovrebbe essere per ottenere il massimo dagli intervistati. Una delle prima regole che si imparano è che bisogna sempre sapere di più degli intervistati e, da questo punto di vista, siamo manchevoli. Tuttavia, e lo dico per esperienza diretta, capita moltissime volte che, anche quando il giornalista fa la domanda giusta e riesce anche a obiettare bene alla risposta che gli viene fornita, cioè fa bene quella che in gergo chiamiamo la seconda domanda, l’intervistato non risponda, o svicoli. E quel punto non si può neppure insistere troppo: diventerebbe narcisismo e io trovo che il narcisismo dell’intervistatore sia una malattia molto diffusa e altrettanto insopportabile.

 

Tutti vogliono essere scomodi.

Penso si debba esserlo il più possibile, ma non in modo inutilmente aggressivo. Il nostro compito non è mettere in difficoltà un interlocutore, bensì restituire i fatti e la loro complessità.

 

Come sono cambiati i politici negli ultimi anni? Intendo soprattutto com’è cambiato il modo in cui si relazionano con la televisione.

Intanto, sono più disinvolti. I più giovani soprattutto si vede che sono nati con in mano i mezzi della comunicazione diretta e quindi sono immediatamente capaci di diventare personaggi televisivi, e in questo sono corroborati dai programmi, specie i talk show, che hanno tutto l’interesse a fare di loro dei personaggi. Questa agilità, però, non corrisponde alla capacità di orientarsi in tutti gli argomenti. Osservo sempre più spesso che i politici sono competenti su dossier specifici, ma sono sprovvisti di coordinate politico-culturali per commentare quello che succede. Una volta avevo in studio due esperti e due politici. Con i primi due, parlai di un attentato in Austria, un fatto piuttosto grave, successo il giorno prima, e mi venne naturale coinvolgere nella discussione anche gli altri due ospiti, per una semplice questione di educazione, dando per scontato che due politici fossero quantomeno preparati sui fatti del giorno. Invece, non mi dissero che ovvietà. Ecco, quando non riesco a ottenere contenuti di spessore, mi sento molto responsabile. Le mie trasmissioni non hanno niente se non le parole e qualche servizio, quindi se i miei ospiti non offrono al pubblico argomenti solidi a sostegno delle proprie posizioni, soffro e sento di aver sbagliato.

 

Sbagliato cosa?

La scelta degli ospiti, che è un lavoro delicatissimo e fondamentale, a sé.

 

L’incapacità di avere uno sguardo lungo sulle cose non si capisce mai da quale vizio culturale derivi, se dallo svilimento della cultura umanistica o dallo svilimento della cultura scientifica.

Sono vere entrambe le cose, abbiamo un grande problema con la cultura scientifica perché non la consideriamo cultura a tutti gli effetti: in un certo mondo, c’è ancora l’idea che gli studi umanistici siano superiori, e tuttavia questi studi sono riservati a pochi. In Italia, non c’è luogo di maggiore disparità della scuola. E questo è un problema enorme, di cui la sinistra non si occupa come dovrebbe, interpretandolo in modo imperdonabilmente superficiale. Allo stesso modo mi allarma che nessuno si preoccupi seriamente delle difficoltà, acclarate ed evidenti, che gli studenti di liceo incontrano nel comprendere e riassumere un testo. Una difficoltà che crea nodi che vengono al pettine in questa generazione di politici: le classi dirigenti si formano dove e come ci formiamo tutti, quindi hanno gli stessi limiti.

 

Ti capita mai che un politico che venga in tv ti chieda di non fargli una domanda su argomenti specifici, confessandoti di non conoscerli?

Eccome.

 

Non ti mette in imbarazzo?

Per loro, dici?

 

Ma tu hai sempre le idee chiare?

No. Però vedo tutti i nodi. Non credo nel pronostico, e non capisco la necessità che hanno molti miei colleghi di azzeccare preventivamente le cose: poi se ci prendono davvero, non pensano di aver avuto fortuna, ma di essere fenomeni dell’analisi politica.

 

Adesso come la vedi?

Viviamo una fase molto confusa e slabbrata, e io mi preoccupo quando non vedo la griglia istituzionale che tiene. Certo, adesso c’è un governo in sicurezza ma la percezione dello sfilacciamento permane. Non saprei proprio dire dove ci porterà.

 

È vero che in Italia la politica non cambia mai?

Falso. Le elezioni del 2018 sono state un terremoto politico e hanno segnato un passaggio d’epoca. Però capisco che la percezione dell’opinione pubblica sia che le facce siano sempre le stesse. Succede perché da noi non ci sono mai cesure: nessuno che subisca una grande sconfitta politica si allontana dalla scena e quindi sembra che nulla cambi. La narrazione che i fedelissimi di Conte stanno tenendo in piedi dopo la caduta del su governo, è che si stavano facendo cose strepitose e che però l’azione dell’esecutivo è stata interrotta. La retorica del sogno interrotto è un grande topos, la fanno i grillini e la fa anche il Pd, ed è uno dei molti modi che i personaggi politici adottano per non uscire mai davvero dalla scena.

 

Quanto è importante la continuità, in politica?

Direi che è fondamentale. Non solo perché serve a realizzare le riforme, ma pure perché consente anche di addebitare: io ho molto a cuore il tema della responsabilità politica e credo che una continuità faccia capire meglio le cose fatte e quelle non fatte. 

 

Ti hanno mai detto che intimorisci?

Io?

 

Essere una donna ti ostacola nel lavoro?

No. Ma non nego che ci siano altri ambiti in cui succeda. Nel giornalismo, francamente, non mi sembra. Ma questo, naturalmente, riguarda la mia esperienza.

 

Cos’è sessista?

Fare tavolate di maschi, ma pure invitare una donna perché serve una donna.

 

Non vorresti lavorare di meno?

No. Vorrei avere un tempo più definito, con altri orari. Comincio a sentire il peso delle albe.

 

Guardi Sanremo?

Ad anni alterni. Ma non sono preparata. Quest’anno proprio no.

 

Che libri leggi?

A parte la saggistica politica che mi serve per lavoro, i grandi classici: ho molte lacune da colmare. Sui contemporanei, mi faccio guidare dalle mie amiche brave lettrici. Da poco, ho scoperto Yazmina Reza.

 

Come fai a non essere mai spettinata?

Ho i capelli crespi, vado spesso dal parrucchiere.

 

Ti accorgi di essere molto amata?

Mi dicono spesso che sono chiara. Mi fa piacere.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.