Il retroscena

"Mi hanno rimasto solo". Zingaretti le mosse di Franceschini, Orlando e Guerini

Non è stato l'Audace colpo dei soliti noti del Pd a far dimettere il segretario, ma loro progressiva lontananza dalla vita del partito. Tra ambizioni personali e giochi interni

Simone Canettieri

Il ministro della Cultura e quello del Lavoro si sfogano: "Nicola ha sbagliato non si fa così".  Orfini: "Di certo non è stata la mia corrente a farlo lasciare" 

“M’hanno rimasto solo”. Se dietro all’addio di Nicola Zingaretti ci sia l’ennesimo Audace colpo dei soliti (ig)noti del Pd non si sa. Di sicuro, però, quella sensazione di noncurante lontananza, con ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi, ha tormentato l’ultima curva    del segretario dimissionario: Andrea Orlando, Dario Franceschini, Lorenzo Guerini. Loro nel governo dei migliori, e lui, lì, a cercare  guance da porgere. Dice Matteo Orfini: “Com’è noto, ho sempre criticato  la linea di Nicola, ma gli ho sempre detto in privato: conosci il Pd, guardati da chi non critica”. 
 
Orfini la butta là con una battuta: “Diciamo che non credo che Zingaretti si sia dimesso per gli attacchi della mia area”. Diciamo.

Alle trame contro l’ottavo leader del Nazareno che va a farsi benedire non ci crede nessuno. E lo dimostra lo stupore dei tre ministri, rimasti di sasso appena hanno letto le agenzie che rilanciavano il fatale post su Facebook di Zingaretti. Hanno aperto le braccia, si sono stropicciati gli occhi: non ci credevano. Ma anche questo la dice lunga: il segretario li sentiva ormai così lontani, i tre capicorrente dem, da reputare di non doverli informare. Semplice. D’altronde, “m’hanno rimasto solo”.  

Raccontano che in queste ore proprio Orlando, Franceschini e Guerini, specie i primi due, siano più che critici con il segretario al di là degli accorati appelli pubblici a ripensarci: “Non si fa così, non si usano quelle parole e quei modi”, sussurrano tra loro i colonnelli che sapevano di pesare più del generale, ora in ritirata.

Questione di trattorie e storie, e forse nemmeno di particolare malizia.  Zingaretti, specie in questa fase di passaggio tra il governo Conte e quello Draghi, ha avuto a che fare con i silenzi e le ambizioni dei tre pilastri del suo partito (ma anche con il vocione dell’onnipresente Goffredo Bettini). Dal progetto di Dario Franceschini di arrivare al Colle più alto della Capitale, magari passando dalla presidenza della Camera, fino alle mosse in solitaria con le quali Orlando prima è diventato ministro e poi ha tenuto il punto per non dimettersi da vicesegretario del partito, mentre le donne dem assediavano il Nazareno. 

Discorso diverso, per Guerini che ha giocato anche lui in solitaria la sua riconferma alla Difesa, forte di un asse con i gangli vitali dell’esercito e con il Quirinale. Ma anche il leader di Base riformista, stringi stringi, ha giocato più per sé che per il segretario, riflettono in molti. E così alla fine, tra obiettivi raggiunti e sogni da accarezzare, Zingaretti si è sentito come il re Travicello. Tradito da quelle “correnti” che ha citato nel suo messaggio di addio. Correnti che pensano alle poltrone. Non proprio, appunto, l’area dei Giovani turchi di Orfini, diciamo. Insomma, questa è la premessa. 

Ma andiamo a Torre Gaia, periferia di Roma sud, palazzi Ater e campetti nuovi di zecca. Zingaretti alle fine si presenta per la classica inaugurazione. E ribadisce, con l’occasione, che non torna indietro, che sì, le sue dimissioni non sono scritte sulla sabbia di Fregene. Tanto che nel pomeriggio le formalizza con una lettera alla presidente del partito, Valentina Cuppi. A chi gli scrive e lo chiama e gli chiede come sta, il governatore del Lazio risponde così: “E’ dura, combatto, ma sono convinto”. Quasi un manifesto. Il resto - l’assemblea del partito, l’ipotesi che si voti una reggente come Roberta Pinotti fino al prossimo congresso in novembre - “sono fatti loro”. Dei tre che adesso cercano una sintesi e non escludono di rinviare l’assemblea per “non trasformarla in un seggio elettorale”. Benvenuti.
 

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.