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La fuffa da rottamare per guidare l'Italia

Claudio Cerasa

Il futuro dell’Italia, più che dallo scontro tra Renzi e Conte, passa prima di tutto da qui: governare gli infiniti colli di bottiglia che tengono il nostro paese in ostaggio della cultura del no. Il recovery e la sfida da far tremare i polsi nascosta dalla politica

Execution, execution, execution. Nel dibattito iper politicizzato che sta dominando da giorni ogni discussione relativa al futuro del Recovery plan c’è un elemento importante messo da parte da Giuseppe Conte e da Matteo Renzi che riguarda un dettaglio cruciale relativo alla gestione dei molti miliardi che nei prossimi anni arriveranno dall’Europa. Fino a oggi, la disputa sui futuri soldi europei (ieri grazie ad Angela Merkel è stato trovato un accordo con tutti i paesi membri e sono stati superati i veti di Polonia e Ungheria) ha riguardato principalmente il tema del “chi” dovrà gestire quei soldi e il vero oggetto dello scontro tra Conte e Renzi in fondo a quello si lega. Conte ha proposto di creare una struttura ad hoc, di fatto parallela al governo, per gestire nel modo più efficiente possibile i 209 miliardi di euro che arriveranno in Italia attraverso il Next Generation Eu. Renzi ha invece proposto di non commissariare la politica e ha lasciato intendere di voler creare un meccanismo che permetta ai ministri di fare quello che Conte vorrebbe far fare ai tecnici. La disputa, da giorni, verte sul “chi”, a chi facciamo gestire questo malloppo micidiale, e Renzi ovviamente vorrebbe che venisse gestito non solo con i suoi uomini ma anche con le sue idee.

 

Nei momenti migliori verte sul “cosa”, ovvero su quali sono i capitoli più importanti su cui puntare per il futuro, e chiedere al governo di avere una visione ambiziosa, coraggiosa, all’altezza della sfida della ricostruzione di un paese è legittimo e persino sacrosanto. Ma misteriosamente ogni protagonista del dibattito pubblico dimentica sistematicamente di affrontare quello che, per un paese come l’Italia, è invece il tema dei temi e che è giustamente la questione che preoccupa di più gli interlocutori europei del governo: non chi, non cosa, ma come. Fino a oggi, il tema del “come” spendere i soldi dell’Europa ha riguardato solo la categoria dell’efficienza o dell’inefficienza e nel peggiore dei casi lo scenario di fronte al quale si è ritrovata l’Italia è quello che coincide con il destino spesso fortunato dei soldi legati ai fondi strutturali: l’Europa stanzia miliardi, se poi quei miliardi non si riescono a spendere resta tutto congelato, arrivederci e grazie. Quello che sembra invece sfuggire rispetto al destino dei fonti legati al Next Generation Eu è che quando i progetti dei paesi membri saranno approvati le erogazioni semestrali che dopo la prima tranche verranno autorizzate di volta in volta dal Consiglio europeo avverranno solo se i progetti saranno eseguiti nei tempi stabiliti (i criteri di assegnazione dei soldi saranno oggettivi, non soggettivi, e i regolamenti europei sono stati costruiti in modo tale da evitare che coloro che andranno ad autorizzare le erogazioni possano in futuro essere accusati dalla Corte dei conti europea di aver agito in modo arbitrario). Il che significa che un progetto autorizzato e poi messo a terra senza rispettare i tempi congelerebbe non solo i fondi europei ma anche lo stesso progetto.

 

Apparentemente potrebbe sembrare solo un noioso problema tecnico, un soporifero dossier legato ai dettagli, alle procedure e ai cavilli giuridici. Ma se si ha la forza di ripercorrere la storia recente del nostro paese si capirà facilmente che il tema del “come” è un tema che riguarda più la politica che la tecnica. E non bisogna essere esattamente dei draghi (se volete anche con la maiuscola) per comprendere che un paese che ha impiegato cinque anni più del dovuto per costruire un piccolo tubo chiamato Tap, che ha inaugurato nel 2020 una stazione della metropolitana di Roma la cui inaugurazione era prevista per il Giubileo del 2000, che si è abituato a governare a colpi di debolissimi decreti salvo intese e che ogni giorno deve fare i conti con il potere di interdizione dei Tar, con i veti delle soprintendenze, con i divieti delle Asl, con i vincoli ambientali, con la discrezionalità assoluta del potere giudiziario abbia il dovere di chiedersi in che modo riuscirà a fare nei prossimi sei mesi quello che non è riuscito a fare negli ultimi trent’anni: riuscire a governare gli infiniti colli di bottiglia che tengono l’Italia in ostaggio della cultura del no. Se visto sotto questa luce, non è difficile rendersi conto che il tema del creare degli acceleratori che rendano praticabile la ricostruzione del paese via Recovery plan (la Francia ha scelto di accentrare tutto al ministero dell’Economia, al punto che il nome del ministero guidato da Bruno Le Maire è stato modificato in “French Minister of the Economy, Finance and the Recovery”, la Grecia ha scelto di farsi aiutare nell’implementazione dei progetti da alcuni professionisti di McKinsey) è un tema che va affrontato mettendo rapidamente da parte la logica del chi fa cosa ed è un tema che va affrontato entrando presto nell’ottica del come fare preparandosi a prendere di petto le tensioni che si andranno ad alimentare una volta che il governo deciderà di emanare una qualche norma che introduca delle corsie preferenziali per dribblare l’Italia dei veti. Il governo aveva promesso ai suoi interlocutori in Europa che avrebbe inserito il 9 dicembre le prime corsie preferenziali in un emendamento alla legge di Bilancio.

 

Quell’emendamento ancora non si è visto, la maggioranza ha fatto sapere di voler spostare tutto il pacchetto delle semplificazioni in un decreto previsto per gennaio ma il punto qui non è avere fretta: è avere la consapevolezza che per un paese che non è stato capace in cinque anni di riformare il codice degli appalti creare oggi un sistema di norme che andrà a scalfire i poteri dell’Anac, della magistratura, degli enti locali, delle soprintendenze è una sfida che, visti i precedenti, è da far tremare i polsi. Mario Draghi, da anni, sostiene che la questione dell’execution, della capacità di mettere a terra i progetti del paese, sia la prima grande emergenza italiana, e lo stesso Renzi ricorderà bene che per fare Expo venne scelto un commissario, che per fare il Mose è stato scelto un commissario, che per costruire il ponte Morandi è stato scelto un commissario. Ma un conto è creare le condizioni politiche per commissariare la gestione di una grande opera, un altro è creare le condizioni per sbarazzarsi, nei prossimi sette anni, dei colli di bottiglia che tengono da decenni in ostaggio l’Italia. I buoni manager possono servire, i buoni ministri possono aiutare, ma la vera sfida per l’Italia di oggi è una sfida che la politica tende a non affrontare e che però costituisce la vera partita dell’Italia futura: avere il coraggio di cambiare le regole sbarazzandosi nel giro di pochi mesi di tutte le forme di populismo burocratico che hanno permesso all’Italia di trasformare l'immobilismo nell’unica forma di legalità consentita. Il futuro dell’Italia, più che dallo scontro tra Renzi e Conte, passa prima di tutto da qui. Svegliarsi, please.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.