(foto LaPresse)

Guerini sportivo

David Allegranti

I fili con le anime della sinistra. Il post renzismo. La mediazione al posto della rottura. Ritratto di Lorenzo Guerini, ministro in movimento con profilo da leader

Una volta il costituzionalista Paolo Armaroli ha detto che “Gentiloni piace perché è un leader che non dà ansie”. Era finita da poco la stagione di governo del renzismo pirotecnico, tutto scintille, annunci e 40,8 per cento, e a Palazzo Chigi era arrivato il gentile Paolo Gentiloni. Poi è giunto il turno, alla guida del Pd, di Nicola Zingaretti, leader non “divisivo”, come si dice con una brutta parola, ma che traduce l’assunto machiavelliano per cui in politica vince chi polarizza i sentimenti, non chi suscita indifferenza.

 

Il vuoto di leadership alla Renzi è stato riempito nel Pd – giacché la politica soffre di horror vacui – da altre personalità. Come Lorenzo Guerini, ministro della Difesa del secondo governo Conte, più ministro che capo politico, ma che oggi, dicono e sperano i suoi, potrebbe persino correre per la guida del Pd, quando si riaprirà la stagione congressuale. Guerini candidato? “Uno-due anni fa, a questa domanda, Lorenzo avrebbe sicuramente detto di no, non prendendo in considerazione l’ipotesi. In uno scenario ideale, che io però a breve non vedo, oggi risponderebbe in maniera diversa, ma solo se gli facessimo politicamente una violenza”, dice al Foglio Alessandro Alfieri, coordinatore nazionale di Base Riformista: “D’altronde adesso ha assunto un profilo istituzionale e il profilo politico si è rafforzato. Questo gli è riconosciuto anche dentro la comunità Pd persino da chi ha con lui una posizione dialettica”, dice il varesino Alfieri, che di Guerini è amico da anni. Si conobbero a un dibattito a Lodi sulla guerra in Iraq, a testimonianza, spiega Alfieri, dell’interesse di Guerini per le tematiche della difesa già da amministratore locale. Fino a non molto tempo fa, insomma, Guerini non ci pensava neanche, a un ruolo diverso da quello del “vice”. Ora però le cose sembrano essere cambiate, anche se le inclinazioni restano, fanno parte dell’atteggiamento, persino della mentalità. È una questione di postura e forse, chissà, adesso è il momento di politici che non fanno casino.


Alfieri: “Lui segretario? Prima avrebbe detto no. Ora in uno scenario ideale, e non a breve, risponderebbe diversamente”


 

Già numero due di Renzi, Guerini fu incaricato in linea con le sue inclinazioni da mediatore, di smussare, sopire e troncare le irruenze dell’ex segretario del Pd. D’altronde il non ancora senatore di Scandicci gli disse, in quel 6 dicembre 2013, a due giorni dalle “primarie della Madonna”, una frase che i presenti ricordano così: “Caro Lorenzo, io ho bisogno di uno che non sia come me”. Cioè non un rottamatore, non uno che diceva di voler usare “il lanciafiamme” nel partito. E Guerini in questo si è specializzato, nel corso degli anni. Nel provare a ricomporre fratture, nel produrre documenti di mediazione uno due giorni prima delle direzioni del Pd, quelle in cui ogni volta sembrava che accadessero sfracelli e poi niente, perché nel frattempo erano arrivati i pompieri.

 

Guerini, l’ultimo a parlare con Pier Luigi Bersani prima della scissione, l’ultimo a parlare con Renzi prima della rottura. Quello che parlava con tutti, con le agguerrite correnti del Pd, quando era al governo del partito. “E’ una posizione molto gueriniana”, è una formula che nel Pd viene usata anche dagli avversari per definire una linea di compromesso (la usa anche il vicesegretario Andrea Orlando). Scuola democristiana, d’altronde, per l’ex presidente della provincia di Lodi ed ex sindaco di Lodi, tant’è che, come noto, Renzi lo chiamava forlanianamente “Arnaldo” Guerini nelle direzioni di partito. A furia di mediare, però, è arrivato il compito più delicato. Quello con l’ex sindaco di Firenze, che da sempre ha lo spirito dell’incendiario. Guerini ha pazientemente argomentato che non era il caso di uscire dal Pd, che fuori dal Pd c’è solo la morte politica, a un certo punto s’è arreso – capita anche al più coriaceo degli ambasciatori – e a un’assemblea renzista a Cortona ha ricordato a Renzi, in un cortese ma inevitabile atto d’accusa, che “è stato un protagonista della fase che ha portato all’accordo di governo con il M5S, ha messo al centro l’interesse del Paese. Credo lo abbia fatto anche in relazione allo strumento che avevamo a disposizione, cioè il Pd. Se questa svolta si è fatta anche secondo le indicazioni che Renzi ha dato, giustamente e coraggiosamente, è stato perché il Pd era unito e ha saputo cogliere anche la prospettiva che lui ha indicato”. Insomma, tradotto dal lessico gueriniano: caro Renzi, il governo che non ti piace ma di cui fai parte è nato grazie a te, perché a un certo punto hai fatto pesare, giustamente, i tuoi parlamentari; perché andarsene adesso, dopo aver fatto nascere il Conte 2? Non ha senso. Forse Guerini aveva intuito il punto di caduta del renzismo, rimasto inchiodato nei sondaggi di Italia Viva al 3-4 per cento. Prudente sì, mica fesso, l’ex sindaco di Lodi che, incarico dopo incarico, negli ultimi due anni ha adottato uno stile sempre più istituzionale e meno politico. Interviste più rarefatte, già ai tempi della presidenza del Copasir, niente dibattiti televisivi. Una scelta precisa, dicono i suoi.


Romano: “Con Guerini, il governo ha ritrovato un posizionamento geopolitico saldamente euroatlantico”


 

Si procede, insomma, per sottrazione. Filippo Sensi, che di mestiere fa il comunicatore oltre che il deputato, dice che Guerini ha “stile”, glielo ha riconosciuto anche su Twitter quando Guerini ha evitato di buttarsi nella “tonnara”, così l’hanno definita i gueriniani, di Ciampino, quando è arrivata Silvia Romano e c’era la gara fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio a chi si faceva la foto migliore con la ragazza appena liberata. Per Base Riformista, la corrente di cui Guerini è capo insieme a Luca Lotti, questo è sia un’opportunità sia un problema. L’opportunità sta nel fatto di avere un ministro del Pd politicamente spendibile al governo (l’altro è il franceschiniano Dario Franceschini, principe dei capicorrente); il problema è che Guerini non ha voluto esercitare finora quel ruolo eminentemente politico. Anche in Lombardia ha fatto così: è stato presidente di provincia, sindaco, ma non ha ricoperto incarichi di partito, che invece sono stati di competenza di Alfieri, oggi coordinatore nazionale di Base Riformista. Ma dentro BR c’è chi spera che – è una battuta ricorrente – Guerini “non giochi solo con i soldatini” e intervenga anche politicamente nel dibattito interno. Come quello sull’intervento pubblico dello stato, nel quale invece Andrea Orlando, vicesegretario del Pd, si è mosso con dimestichezza ideologica. A Orlando non ha replicato Guerini ma Antonello Giacomelli, spiegando perché la posizione del vicesegretario non era da banalizzare e che anzi dovremmo archiviare “prima possibile le categorie di liberisti e statalisti”: “Il tema non è quindi se lo Stato debba intervenire ma per quali interessi e quali obiettivi debba farlo”, ha scritto Giacomelli, prendendo posizione, su Immagina, il nuovo portale del Pd, in un articolo dal titolo “serve più Stato per avere più mercato”. Il tema di un nuovo ruolo del pubblico”, ha scritto Giacomelli, già braccio destro di Franceschini e oggi in Base Riformista, “sta già nel cuore di una discussione reale. E non ha meno valore per il fatto che oggi dire ‘pubblico’ evoca più la dimensione europea che quella nazionale. Lo slogan meno stato più mercato non è mai stato così privo di senso come ora. Non c’è più, se mai c’è stata, una contrapposizione fra liberisti e statalisti, semmai la vera distinzione è fra i sostenitori, consapevoli o meno, di un oligopolio in atto che, sfruttando l’impotenza degli Stati nazionali, rischia di annullare il valore della libera iniziativa e coloro che difendendo l’idea di libero mercato, invocano una più incisiva presenza del pubblico”.

 

Ecco, da Guerini i suoi si aspettano delle prese di posizione simili. Che intervenga direttamente, per esempio, nel dibattito sull’alleanza permanente strutturale con i Cinque stelle, di cui ha scritto il portavoce nazionale di Base Riformista Andrea Romano su Linkiesta, spiegando che la scelta del Pd di puntare sul governo con i Cinque Stelle nasce “da un’idea di politica che non si riduce a testimonianza onanistica di sé  ma che prova a mettere le mani nel fango delle cose reali, da un’idea di responsabilità che ha sempre animato la parte migliore della sinistra italiana”. Anche Guerini, sul punto, la pensa esattamente come Romano, secondo quanto risulta al Foglio. Ma un conto è concordare sul contenuto di un articolo, un altro conto è esporsi politicamente con nome e cognome. L’impasse, prima o poi, si risolverà. Alcuni parlamentari di Base Riformista dicono che finora non c’è stata una “leadership evocativa”, alla Renzi, ma una leadership collettiva. Guerini però ha aumentato negli ultimi due anni il suo peso specifico e a un certo punto, quando verrà il momento, potrebbe pure vestire i panni dell’anti-Zingaretti. Certo, andrà risolta una questione non secondaria: e Giorgio Gori? Prima dell’emergenza sanitaria, il sindaco di Bergamo aveva avviato un elaborato percorso per avvicinarsi a una futura candidatura, aveva anche scritto una sorta di manifesto per il Foglio. Ci sarà un duello interno o, ancora una volta, arriverà una mediazione?


In Base riformista sperano che il ministro “non giochi solo con i soldatini” ma che intervenga anche nel dibattito politico


 

Una fase nuova è comunque cominciata. Già si intravedono battaglie nel M5s, fra Giuseppe Conte (che magari potrebbe pure fare una sua lista), Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista. Nel Pd le battaglie non finiscono mai, neanche dopo i congressi, semplicemente di volta in volta si aggiungono o si sottraggono protagonisti in attesa che arrivi il prossimo voto per scegliere il nuovo segretario. Resta da capire come questi sommovimenti si ripercuoteranno sulla vita del governo; ne accorceranno l’esistenza o la stabilizzeranno?

 

Dentro il Pd sono convinti che, intanto, la presenza di Guerini abbia influito positivamente sulla geopolitica del governo. “Tra le principali differenze che segnano la distanza tra il governo Conte 1 e il governo Conte 2 c’è il posizionamento geopolitico dell’Italia, che oggi è saldamente tornato in campo euroatlantico dopo le sbandate filo-russe imposte da Salvini”, dice al Foglio Romano, portavoce di Base Riformista: “Un posizionamento a cui ha contribuito in maniera decisiva Guerini come ministro della difesa, da ultimo gestendo con saggezza la presenza di militari russi durante l’emergenza Covid e vigilando sugli aspetti di sicurezza più delicati. E questo serve anche a spingere i Cinque Stelle nella direzione giusta, nonostante che tra loro vi siano diffuse simpatie verso il regime cinese”. Il non detto di Romano, o forse un suo sottinteso, è che sulla vicenda dei militari russi la Difesa ha cercato di sottrarsi all’attivismo filo russo di Luigi Di Maio, che invece campeggiava a Pratica di Mare per accogliere gli aerei putiniani. “Dialoghiamo con tutti, ma i pilastri della nostra sicurezza sono Nato e Unione europea”, ha detto a inizio maggio Guerini in un’intervista a Repubblica. “E questi rimangono”, ha aggiunto il ministro della Difesa: “Nella fase dell’emergenza sanitaria, la comunità internazionale ha aiutato l’Italia. L’ha fatto l’Europa, gli Stati Uniti, e altri paesi tra cui Cina e Russia. Questa circostanza, però, non modifica minimamente il nostro tradizionale quadro di riferimento internazionale. Siamo grati a tutti per gli aiuti, ma non c’entrano con i pilastri della nostra collocazione, che non cambiano”.

 

Sicché, per capirci: lo standing istituzionale di Guerini è cresciuto, il problema è che a lui non va tanto di fare il capocorrente, passaggio prodromico per fare il candidato capo politico. Altri ministri invece, osservano alcuni parlamentari di Base Riformista, sono già in campo. Come Dario Franceschini, che nella sua ultima intervista al Corriere della Sera non s’è limitato a parlare di Beni culturali ma pure di infrastrutture, rispolverando persino il ponte sullo stretto, l’arma finale di tutti i rappresentanti di classe che al liceo proponevano il campetto da calcio (senza mai realizzarlo). “Io penso a un grande investimento sulla mobilità”, ha detto Franceschini: “Non è possibile e giusto che l’alta velocità si fermi a Salerno. Sulla traccia di quello che la ministra De Micheli ha iniziato a fare, ora che le risorse ci sono bisogna avere il coraggio di immaginare due grandi scelte. Da un lato l’alta velocità che arriva in Sicilia, fino a Catania e Palermo”. Ecco, dentro la corrente di Base Riformista quella di Franceschini è parsa un’intervista “da candidato premier”, mentre appunto Guerini è molto focalizzato sulla Difesa ed è attento a evitare le polemiche interne.


La sua corrente lo spinge ad avere un ruolo non soltanto istituzionale. Altri sono già in campo. Citofonare Franceschini 


Come spiegato sin qui, Guerini è un politico di interlocuzione. Certe volte ha anche mediato con se stesso. Un anno fa (era il primo maggio 2019 e ancora c’era il governo Conte 1 con Salvini) disse al Foglio “per me 5 stelle e Lega pari sono” e spiegò perché con i grillini non era possibile fare alcunché: “Mi sembra singolare che si possa anche solo immaginare di avviare un confronto con il M5s, una forza che rappresenta la maggioranza relativa del governo, nei giorni in cui abbiamo presentato, sia alla Camera che al Senato, una mozione di sfiducia proprio contro quel governo”. Erano i tempi dell’ormai sepolto caso Siri, sembra passato un secolo. E’ del tutto “evidente”, aggiungeva Guerini, che “la mozione di sfiducia è un atto politico che implica un netto giudizio negativo nei confronti dell’esecutivo e delle forze che lo sostengono. Mi consenta la battuta: presentare la mozione di sfiducia e nel contempo aprire confronti e dialoghi mi sembrerebbe francamente un po’ schizofrenico. Ma non mi sembra che questo dibattito sia all’ordine del giorno del Pd”. Insomma, diceva Guerini, rapporti con il M5s “non esistono e non possono esistere”. Il resto è cronaca recente. Guerini ha cambiato idea. Come molti altri nel Pd. Tuttavia, c’era anche, in quell’intervista, una traccia di un futuro programma di governo, o quantomeno un target elettorale: “Lo spostamento verso una destra sovranista, compiuto da Salvini, provoca un evidente disagio nell’elettorato centrista, come si capisce da tutte le recenti indagini demoscopiche. E’ chiaro che il Pd deve guardare a quell’elettorato moderato; non è nel nostro interesse, né credo in quello del paese, considerarlo perduto e consegnarlo ai Cinque stelle e alla Lega”. Solo che nel frattempo s’è affacciata la variabile del partito di Conte. Un possibile concorrente (quantomeno nelle intenzioni).

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.