Matteo Renzi (foto LaPresse)

Come si esercita un buon coalition power

Giuliano Ferrara

Un’arma destabilizzante e in parte rivoluzionaria, ma bisogna saperla usare

Allora, qui c’è un problemino politologico semplice semplice. Con tutte le differenze, è cosa di ieri che riguarda la situazione italiana di oggi. Riguarda la campagna destabilizzatrice di Renzi e la controcampagna della maggioranza alla quale sempre più fragilmente egli appartiene. Come si può usare il coalition power? Dicesi coalition power il peso di formazioni minori nel condizionare maggioranze e governi facendo contare i propri voti indispensabili o la propria influenza di lobby e culturale. Nella Repubblica dei partiti (1948-1993) i centristi, i repubblicani, i liberali e i socialdemocratici esercitavano con la Democrazia cristiana, che non sempre aveva bisogno dei loro voti ma non voleva un dominio solitario, perché era sapiente, il secondo tipo di coalition power: idee, lobby confindustriali, presenza culturale, visione per l’Italia, rappresentanza di ceto, tradizione laica, pressione parlamentare, alleanze internazionali: di questo sostanzialmente era fatto il loro potere di coalizione, prima e più ancora che dei loro voti. A partire dagli anni Sessanta, con la nascita del centrosinistra, i socialisti vecchio tipo aggiunsero a questo potere un più marcato potere, quello strettamente legato all’indispensabilità politica e numerica dei voti parlamentari socialisti per la composizione di maggioranze di governo, un apporto che faceva la differenza, come si dice, in relazione, si capisce, a un progetto di modernizzazione e sviluppo del paese. 

 

 

La Dc via via prese a giocare con la cosiddetta politica dei due forni e si adattò con grande duttilità sia alla fase centrista sia alla fase di centrosinistra. A un certo punto, negli anni Settanta, il centrosinistra entrò in crisi, si cominciò a porre il problema della relativa capacità, sempre crescente, del Partito comunista, già ampiamente costituzionalizzato, di entrare nell’area di governo. E arrivò Craxi, il leader autonomista, che fece del coalition power un’arma destabilizzante e in parte rivoluzionaria, sempre all’interno del sistema politico dato.

 

Craxi voleva destabilizzare e ostacolare la progressiva tendenza a convergere, in una formula consociativa che diventava esplicita alleanza politica, della Dc e del Pci. Avesse trionfato quella formula, il Partito socialista sarebbe divenuto una componente strutturalmente minoritaria e tutto sommato irrilevante del blocco di sinistra a guida comunista. Era il rischio che correva la politica di De Martino, suo predecessore fino al 1976, degli “equilibri nuovi e più avanzati”, in cui il Psi si diceva indisponibile all’alleanza con la Dc senza un coinvolgimento dei comunisti. Craxi all’inizio, poco oltre la metà dei Settanta, giocò da neosegretario con la formula dell’alternativa di sinistra contrapposta al compromesso storico, la vasta alleanza popolare con i cattolici promossa da Berlinguer dopo il colpo di stato cileno (1973). Poi scelse il coalition power nudo e crudo. Rivendicò a nome della governabilità del sistema, alla quale i voti socialisti occorrevano, la visione programmatica di un’altra Italia, e chiese la fine della direzione democristiana del governo, la fine del monopolio democristiano sul Quirinale, la fine dell’egemonia indiscussa del partito di maggioranza relativa sui gangli del potere (nomine, televisione eccetera). Contemporaneamente scatenò una campagna di anticomunismo democratico, com’era nel suo stile riformista e autonomista, imponendo una battuta d’arresto alla potenziale convergenza Dc-Pci.

 

Il coalition power di Craxi era questo: impongo alla Dc una dura coabitazione di governo, fatta di competizione continua e di emulazione per la guida dello stato e del sistema, allo scopo di meglio combattere e ridimensionare la pretesa egemonica dei comunisti, e il mio potere di coalizione serve non solo a bloccare il consociativismo cattocomunista ma anche a svuotare i comunisti della loro pretesa e a costringerli nello schema di un’alternativa potenziale, a guida socialista democratica, in un nuovo sistema riformato nel segno dell’alternanza possibile. Uno dei due forni serviva a Craxi non tanto per calmierare genericamente il prezzo del pane, anche, quanto e principalmente per preparare l’altro forno a cuocere un altro tipo di pane. Quando per sfiducia e per molti altri motivi Craxi smarrì questa funzione dinamica, attiva, del coalition power, allora mise le basi della sua sconfitta politica, che fu com’è noto preceduta da una sconfitta manu giudiziaria sua e del sistema dei partiti. Si chiuse nel recinto del pentapartito, e i cattivi lo andarono a prendere. Ma finché era durato, il coalition power del primo Craxi fu una bonanza per lui e per l’Italia.

 

Renzi fa benissimo a far pesare i suoi voti, a esercitare il coalition power, ma non ha uno schema analogo, il sistema odierno o se volete la disposizione dei pezzi sulla scacchiera non glielo consente. Craxi era duro nel rapporto con l’alleato di governo perché questa durezza lo aiutava a colpire il velleitarismo di Berlinguer e insieme a preparare il terreno eventuale di uno storico ribaltone guidando una alleanza alternativa di sinistra democratica, che era il suo orizzonte implicito e talvolta esplicito. Ma Renzi può solo contribuire a riportare il centrodestra al potere, pagandone le conseguenze, perché una sua anche solo ipotetica alleanza con il senatore Salvini e compagnia è una chimera priva di senso. Può ottenere solo risultati parziali e concordati. E’ auspicabile che di questa differenza cruciale, applicando con delicata misura il coalition power, voglia tenere conto. Il che vale anche per i suoi interlocutori di maggioranza e di governo. La situazione è bloccata, e fino a che non ci siano sostanziali novità, il potere di coalizione è sempre legittimo, ma vale meno e si deve esercitare diversamente dal passato.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.