Luigi Di Maio e Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Il governo dà un buffetto alla Cina

Valerio Valentini

Palazzo Chigi vuole rivedere i requisiti di accesso al 5G, come chiede Trump, per non agevolare la vita alle aziende cinesi

Roma. Ci sono dei momenti in cui le richieste di un alleato diventano irrecusabili. E siccome la guerra rientra a pieno titolo in questo tipo di contingenze, ecco che il governo si appresta a modificare, in modo chirurgico ma significativo, la normativa sul 5G, così come auspicato dall’Amministrazione Trump. La stessa da cui, del resto, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio sperano di ottenere un sostegno decisivo in vista della conferenza di Berlino di domenica prossima, quando l’Italia conta di ottenere quel che ritiene necessario per provare a risolvere la crisi libica: e cioè vedersi affidata la guida di una forza d’interposizione che agisca su mandato dell’Onu ma sotto l’egida della Nato.

 

E insomma quel che non poté la moral suasion statunitense potrebbe renderlo possibile la crisi diplomatica. Perché finora, specie dal lato del M5s, c’erano sempre state certe resistenze a recepire le sollecitazioni di Washington per quel che riguarda il 5G, l’infrastruttura digitale del futuro, e le implicazioni di sicurezza cibernetica ad essa collegate. Se n’era già occupato il governo gialloverde: con un decreto redatto sotto la supervisione dell’allora sottosegretario alla presidenza leghista Giancarlo Giorgetti, che era stato accolto con favore dalle feluche a stelle e strisce. Un po’ meno, invece, da quella parte dell’esecutivo a trazione grillina che in quegli stessi mesi amoreggiava sulla Via della seta col governo di Pechino. Perché in fondo il problema, a volerlo ridurre all’osso, sta tutto lì: nel controllo dei dati che le aziende che gestiranno il 5G si garantiranno. Questione di sicurezza nazionale, insomma, e di collocazione geopolitica: per questo gli Usa, non vogliono che i colossi cinesi Huawei e Zte vengano fatti entrare in partita dai paesi alleati.

 

Il M5s aveva sempre opposto – con una assai bizzarra affezione alle logiche della concorrenza, per un partito che venera il culto della nazionalizzazione come via per la crescita – ragioni di libero mercato, e anche per questo Conte, nella sua nuova veste di premier rossogiallo, nel settembre scorso aveva confezionato un nuovo decreto in materia di 5G che, in buona sostanza, allargava non poco le maglie d’accesso all’infrastruttura digitale, riammettendo di fatto anche Huawei e Zte nella gara che verrà. E non a caso già a inizio ottobre, nel corso della sua visita romana, il segretario di stato americano Mike Pompeo – che ritiene la partita sul 5G strategica a livello globale – aveva inviato una sua diretta collaboratrice al Mef per confrontarsi con esponenti di governo del M5s, e manifestare un certo malcontento. 

 

 

A dicembre, poi, anche il Copasir aveva sottolineato, in una sua relazione sulla sicurezza informatica e la protezione cibernetica, la necessità di rafforzare i controlli nei confronti di Huawei e Zte: “Contrariamente a quanto avviene per le imprese occidentali – si leggeva nel report del comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica – le aziende cinesi, pur formalmente indipendenti dal potere governativo, sono tuttavia indirettamente collegate alle istituzioni del loro paese”. Decadevano così, insomma, anche le giustificazioni di Stefano Patuanelli, subentrato a Di Maio alla guida del Mise, secondo il quale “Huawei offre soluzioni migliori ai prezzi migliori”, per cui “non si può sventolare la bandiera del libero mercato con una mano e quella del protezionismo dall’altra”.

 

Ma quella del 5G non è una questione commerciale, quanto piuttosto politica e diplomatica: e serve una scelta di campo. E’ questa l’osservazione che dagli esponenti del Pd più vicini al dossier è stata avanzata a Conte. E forse è anche per questo che ora dallo stesso Mise, dove a occuparsi direttamente di 5G è la sottosegretaria grillina Mirella Liuzzi, che trapela la volontà di “recepire le osservazioni del Copasir”. Le stesse che, più o meno, arrivano da Palazzo Chigi, dove lo staff del premier parla di un possibile intervento per “irrigidire le prescrizioni”, ma – si sottolinea – “sempre nell’ambito delle regole di diritto”. Un modo, insomma, per dire che una stretta ci sarà, ma non totale: perché, è il senso del ragionamento, la versione iniziale del decreto, quella “giorgettiana”, prevedeva un’esclusione di fatto, a norma di legge, delle aziende cinesi alla gara per il 5G italiano. Una discriminazione con possibili rischi d’incostituzionalità. Quello a cui si lavora, ora, è una soluzione sul modello francese: e cioè una definizione così dettagliata dei requisiti d’accesso al 5G, tale per cui le aziende occidentali sarebbero naturalmente favorite, ma senza che la legge lo sancisca esplicitamente. Sperando, ovviamente, che a Trump basti così.

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