Matteo Salvini e Giorgia Meloni (LaPresse)

Il dramma della maggioranza senza leader

Claudio Cerasa

Non bucano, non fanno notizia, non hanno posizioni e tendono a esistere solo come negazione degli avversari. Salvini e Meloni incarnano un racconto, i loro avversari solo una paura. Perché non può funzionare la lotta tra il cacciavite e il martello

Il professor Michele Salvati, sul Corriere della Sera di ieri, ha dedicato un editoriale molto interessante a un tema stimolante che ha una sua oggettiva centralità nella fase politica che stiamo vivendo: l’incredibile vuoto di leadership all’interno del fronte politico che combatte la grammatica nazi-pop (nazional-populisti). Nel mondo di oggi, ha scritto Salvati, la sinistra italiana, rispetto ai suoi competitor, parte molto svantaggiata: “Non ha un leader che la rappresenti”, “ne ha troppi aspiranti a questo ruolo” e “al governo i contrasti interni suscitati dalle misure che si propone di adottare sono sotto gli occhi di tutti”. Il ragionamento, naturalmente, non riguarda solo ciò che resta della sinistra, che dopo anni gioiosamente passati a combattere l’uomo solo al comando si ritrova oggi in uno stato in cui gli uomini al comando sembrano far di tutto per non sembrare al comando, ma riguarda anche ciò che resta del grillismo (Grillo dove sei?) e in fondo è sufficiente passare qualche ora la sera di fronte alla televisione per rendersi conto della presenza di un fenomeno difficile da negare.

 

I leader che si trovano oggi all’opposizione, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, passando per i vari opinionisti al seguito, riescono a far notizia, cioè a far parlare di loro, in qualsiasi occasione. E a differenza degli avversari fanno riflettere, fanno indignare, fanno arrabbiare, suscitano emozioni, provocano reazioni e in definitiva bucano lo schermo. Lo fanno anche perché molte televisioni hanno fatto propria la grammatica anti sistema, e nazi-pop, prima ancora che le forze anti sistema, e nazi-pop, arrivassero al potere. Ma intanto il risultato è che le leadership alla Salvini e alla Meloni esistono ed esprimono un’identità per quello che sono. Mentre i loro avversari, limitandosi a essere all’opposizione dell’opposizione e scegliendo dunque di esistere come negazione dei propri nemici, non bucano, non fanno notizia, non scaldano, non emozionano, non hanno posizioni, danno spesso l’impressione di non avere altri messaggi che non siano quelli dell’unità, nuovo e vuoto surrogato dell’onestà, e tendono così a generare un effetto che, come ci suggerisce Aldo Grasso, porta a creare nel circuito mediatico delle non leadership che si affermano come leadership: “C’è una ragione – ci dice Grasso – se gli unici che oggi sembrano riuscire a tenere testa ai Salvini e alle Meloni non sono i leader politici ma sono i conduttori televisivi, che a volte riescono a far notizia, e ad esprimere un’identità, più di molti leader politici”.

   

Da molti punti di vista si può dire che la modalità con cui è stato preparato il terreno per avere delle leadership capaci di superare la fase storica delle figure degli uomini soli al comando ha generato un processo che ha portato alla presenza sul terreno da gioco di una infinità di leadership costruite in maniera tale da non poter (e dover) comandare troppo. La leadership di Conte, se così si può dire, nasce per la non presenza di altre leadership al governo – e già il fatto che tra i leader di partito presenti al governo vi sia solo quello più debole, Luigi Di Maio, e non vi sia né Nicola Zingaretti né Matteo Renzi, che ai vertici di governo neppure ci va, ci dice molto sull’incapacità del governo di fare notizia per quello che è piuttosto che per quello che non è. E in fondo la stessa leadership di Conte, se così si può chiamare, viene tollerata dagli azionisti di maggioranza del governo, Di Maio e Renzi in particolare, solo quando questa viene esercitata per mediare e non per comandare.

 

E a sua volta, la leadership di Nicola Zingaretti, nel Pd, viene apprezzata dalle varie correnti del Pd perché Zingaretti ha da sempre detto di voler essere un leader a metà, non protagonista, e si vede, disposto cioè a guidare il partito anche a costo di seguire linee imposte da altri e per di più non intenzionato a mettere i bastoni in mezzo alle ruote di tutti coloro che un giorno proveranno a guidare la coalizione di centrosinistra (il Pd sta addirittura cambiando lo statuto per non rendere più automatica la sovrapposizione tra leader del partito e candidato premier di quel partito: l’articolo 3 comma 1 della bozza di statuto del Pd precisa che di norma il segretario, eletto in primarie aperte è il candidato premier ma può indicare alla direzione un’altra persona come candidata per tale ruolo nel caso il Pd aderisca a una coalizione).

 

L’assenza di leadership, nel governo, è una conseguenza diretta della volontà di superare la stagione del Papeete, e forse anche quella della Leopolda, e deriva evidentemente dalla volontà mostrata dai principali azionisti del governo di contrapporre al metodo del martello la tecnica del cacciavite, per evitare una qualsiasi forma di competizione all’interno dell’esecutivo capace cioè di far ripiombare il Conte 2 nella stessa e litigiosa trappola mortale in cui era piombato il Conte 1. Il Conte 2 però ha la caratteristica di essere un governo litigioso anche senza avere ministri disposti a governare in diretta dal Papeete. E il disorientamento, in questo caso, è creato dall’assenza di una guida e dalla non capacità delle forze che si trovano all’interno della maggioranza di considerare come una virtù la presenza di una possibile competizione all’interno del governo.

 

In prospettiva, dunque, per gli avversari di Salvini, non avere una leadership popolare capace di incarnare l’alternativa alla cultura nazi-pop (nazional-popolare) è, politicamente, un disastro assoluto, che potrebbe però costringere le due leadership non leadership che sostengono il governo del non leader Conte a tenersi stretto, Ilva o non Ilva, tasse o non tasse, ciò che hanno oggi. I governi, di solito, cadono quando vi è un partito forte che vuole capitalizzare il consenso e non si vede quale dei due partiti presenti oggi al governo potrebbe cadere in questa tentazione. A meno che un giorno Renzi non decida di sfruttare le debolezze degli attuali alleati e di rompere le righe magari dopo aver avvicinato la Lega di Salvini al tavolo delle riforme. Ma questa forse è tutta un’altra storia.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.