Piazza Duomo Milano (Foto LaPresse)

Un filo sottile collega la “fottutissima zingaraccia” con gli “sporchi ebrei”

Francesco Cundari

Quando il principio che fare del bene è un male viene affermato per decreto

Da tempo si è aperto a sinistra un grande dibattito attorno al seguente dilemma. Di fronte a un leader politico che dall’alto del suo ruolo di governo lancia messaggi sempre più esplicitamente razzisti per fomentare la sua base elettorale e attirare l’avversario sul terreno a lui più favorevole, cosa deve fare l’opposizione: rispondere colpo su colpo, col rischio di fare il suo gioco, alimentando un ciclo delle notizie perennemente incentrato su di lui, sulla sua agenda e sulle sue parole d’ordine (o, come dicono i saputi, i suoi “frame”); oppure ignorarlo, parlare d’altro, concentrarsi sulle proprie proposte, con il rischio di legittimare e lasciare che si affermino incontrastati dei principi aberranti, consentendo che diventino definitivamente dicibili manifestazioni di odio un tempo impronunciabili?

 

Questo è il dilemma attorno al quale si dividono oggi – come tutti sappiamo – politici e opinionisti della sinistra americana, alle prese con le dichiarazioni sempre più apertamente razziste di Donald Trump. Siccome però qualche piccolo segnale in questo senso sembra cogliersi anche in Italia, non è forse inutile provare a individuare possibili punti di contatto ed eventuali differenze. E la prima differenza che salta agli occhi è che Trump non ha mai detto nemmeno la metà della metà di quello che ha detto Matteo Salvini soltanto negli ultimi tre giorni. In America, per esempio, si discute da settimane dell’invito del presidente, rivolto a parlamentari democratici di origini straniere, a tornarsene nel loro paese. Tra i punti più bassi toccati in precedenza c’era la definizione di “paesi di merda” da lui riferita alle nazioni di provenienza degli immigrati. Ma insomma, in una ideale (si fa per dire) classifica dei discorsi d’odio, con tutto quello che sta occupando da mesi prime pagine e prime serate dei media americani non ci si farebbe un decimo del punteggio totalizzato soltanto ieri da Salvini, con le parole sulla “fottutissima zingara”.  

 

Dunque il dilemma dei democratici americani qui da noi si presenta in forma ancora più estrema. Senza dimenticare che oggi, tanto nel caso di Trump quanto in quello di Salvini, noi non parliamo di battute dal sen fuggite, nel bel mezzo di una discussione, ma di dichiarazioni scandite da un palco, nel bel mezzo di un monologo, che giungono peraltro al termine di una lunga serie di analoghe invettive contro quelle stesse persone, o categorie di persone. Nel caso italiano: la “zingaraccia”, così apostrofata giorni fa, cui il ministro dell’Interno promette di "radere al suolo" la casa.

 

Siamo davanti cioè alla pubblica e plateale rivendicazione dell’offesa razzista come legittimo argomento di discussione nel dibattito pubblico. E questo pone un problema morale che riguarda noi tutti: non solo i politici, l’opposizione o la sinistra. Perché, se lo accettiamo oggi, anche soltanto con il nostro silenzio, con quali argomenti potremo protestare domani, quando dalla “fottutissima zingara” si passerà agli “sporchi negri” o magari agli “sporchi ebrei”? O qualcuno è in grado di spiegarci quale sarebbe la differenza tra le suddette affermazioni? E se no, come fate a difenderle, o anche solo a minimizzarle? Perché le cose sono due: o avete deciso che vi piace l’idea di un paese in cui nel dibattito pubblico divenga normale parlare di “sporchi ebrei”, oppure dovete dire qualcosa adesso. Non c’è una terza possibilità. Domani sarà tardi. Anzi, a giudicare dalla diffusione incontrastata delle orrende cantilene su George Soros, sul complotto “sorosiano” mirante alla “sostituzione etnica” dei popoli europei, direi che è già tardi, e si tratterebbe semmai di tornare indietro. Si dirà: ma no, ce l’hanno con Soros perché finanzia organizzazioni non governative e varie altre forme di solidarietà. E già qui uno vorrebbe dire: fermatevi e rileggete la vostra obiezione. Perché, quando arrivi non solo a sentir dire che fare del bene è male, ma addirittura a considerarlo un argomento razionale per una discussione, vuol dire che la corsa collettiva verso gli anni Trenta è già vicinissima al traguardo (e non c’è bisogno di spiegare cosa ci aspetta, al traguardo, vero?). Figurarsi quando il principio che fare del bene è un male viene affermato per decreto. Ma per quanto riguarda la campagna contro Soros non è nemmeno questo il punto, perché gran parte dei miliardari – buoni e cattivi, illuminati o primitivi, persino Donald Trump! – prima o dopo ha finanziato qualche buona causa. Non facciamo finta di non capire. Il complotto internazionale dei banchieri è un genere letterario preciso, e le regole del genere richiedono tassativamente che il banchiere in questione sia ebreo. Allo stesso modo, la politica dell’odio impone tassativamente di cominciare dalle categorie più impopolari, quelle che non difende nessuno perché non conviene, perché non è il momento giusto, perché ora sarebbe un errore tattico (chiedere per conferma a Ivan Scalfarotto). Per demolire lo stato di diritto non si comincia mai dai diritti delle brave vecchiette, è ovvio. Si comincia sempre dagli immigrati, dalle minoranze, dagli accusati di reati particolarmente odiosi.

  

Dunque il problema, alla fine dei conti, non è tanto cosa debba fare l’opposizione, perché non si tratta, in senso stretto, di un problema politico. O almeno non esclusivamente. Il punto è cosa facciamo tutti noi. Perché se tutti noi non faremo niente, temo che l’opposizione potrà fare ben poco, qualunque cosa decida di fare.