Il capo politico del M5s, Luigi Di Maio (Foto LaPresse)

Quando il M5s governa, i suoi elettori scappano. Il caso di Avellino

Marianna Rizzini

I grillini soffrono l'effetto realtà e perdono il loro ultimo feudo in Campania. L'eccezione Campobasso fa sorridere Di Maio

Roma. Luigi Di Maio vede il bicchiere mezzo pieno, ma cerca anche di sembrare uno che lo vede mezzo vuoto: e insomma la vittoria dei Cinque stelle a Campobasso, con Roberto Gravina, poteva far dire al vicepremier e capo politico del M5s che “il voto è espressione della nostra democrazia”, ma gli faceva anche nel contempo dire che “le città non sono trofei da esporre, non si festeggiano le vittorie ma i risultati”. Non si monta la testa, Di Maio? In effetti ne ha ben donde, visto che altrove, praticamente ovunque, il M5s ha perso tutte le città che amministrava: Livorno, Avellino, Civitavecchia e Nettuno. E non sono arrivate le cavallette, come in Sardegna – più che altro è stato un effetto di autoaffondamento: ci sono casi, come Avellino, dove l’esperienza di governo grillina si è rivelata letale per i Cinque stelle dopo appena cinque mesi: nel novembre del 2018, infatti, il sindaco pentastellato Vincenzo Ciampi è stato mandato a casa non con i diciassette voti contrari necessari a sfiduciarlo, ma con ben ventitré “no” alla sua amministrazione.

 

Era la prima esperienza di giunta grillina in Campania, già dall’inizio era stata soprannominata “anatra zoppa” (con più assessori che consiglieri comunali che potessero essere considerati dalla parte del sindaco). E i Cinque stelle, come si è detto, perdono anche i comuni laziali dove anni fa erano arrivati con aria trionfale, dopo lo sbarco in Parlamento. Per non dire della Livorno dove la parentesi grillina di Filippo Nogarin è stata chiusa con la vittoria del centrosinistra. L’effetto-realtà – sporcarsi le mani con l’amministrazione locale, giorno per giorno – finora non ha fatto bene a uno dei due partiti al governo nel paese.

  

 

L’Istituto Cattaneo fotografa la situazione: il M5s ora amministra soltanto lo 0,8 per cento sul totale dei comuni (partendo dal 3,2: da quattro comuni, cioè, si è passati a uno). E il caso di Campobasso così viene spiegato, nella stessa analisi: “Il M5s si conferma, anche in questa occasione, una ‘macchina da ballottaggio’”, si legge sul sito dell’Istituto Cattaneo: “Quando – sempre più raramente – riesce ad accedere al secondo turno, si trasforma in un partito pigliatutto, in grado di attrarre i consensi degli elettori dei candidati esclusi dopo il primo turno”. “Sempre più raramente”: forse è questa la chiave. Ai ballottaggi, infatti, il M5s non era quasi presente, dopo il flop del 26 maggio.

 

Un voto che non era stato negativo soltanto per il crollo al 17 per cento a livello di elezioni europee. Campobasso fa eccezione, dice l’Istituto Cattaneo, perché, pur essendo il sindaco grillino “riuscito ad andare al ballottaggio soltanto nella città di Campobasso, il candidato del M5s ha ribaltato l’esito del primo turno, raddoppiando i propri voti e crescendo di quasi 40 punti percentuali. Da questo punto di vista, sia il centrosinistra sia il centrodestra mostrano un comportamento perfettamente speculare rispetto a quello del M5s. Se i Cinque stelle faticano ad accedere al ballottaggio ma poi si dimostrano praticamente invincibili nel secondo turno, le due coalizioni ‘tradizionali’ accedono con relativa facilità ai ballottaggi ma poi ne escono sconfitte in circa la metà delle competizioni…”. Ma come l’ha presa, davvero, Luigi Di Maio? Le sue parole indicano la strada (amara) dell’automotivazione (con arringa alle truppe): “Il MoVimento 5 stelle non può illudersi che con una vittoria singola sia tutto a posto. Serve un’organizzazione in modo tale che ci siano ruoli, responsabilità, progetti, e in quest’ottica continuano i lavori. Nei prossimi mesi voglio mettere a punto l’organizzazione con persone che possano rispondere alle esigenze degli italiani. Ma non ci fermiamo nemmeno per quel che riguarda le priorità di governo. …Andiamo avanti!”. Contento (e convinto) lui.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.