Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Viviamo in tempi straripanti e gli argini si spostano sempre più in là

Guido Vitiello

Prima soffiano sul fuoco e poi vorrebbero domare l’incendio

Viviamo in tempi straripanti, e Luigi Di Maio ha pensato bene di lanciare il M5d: Movimento cinque dighe. Siamo un argine a tutti gli estremismi, va dicendo in questi giorni di campagna elettorale. Siamo un argine alle “follie dell’ultradestra dilagante”. E siamo un argine alla nuova Tangentopoli, alla corruzione e al malaffare. Siamo anche un argine alle idee retrograde sulle donne, la famiglia e i diritti civili che la Lega non prende più neppure dai Papi ma direttamente dai popi. Come se non bastasse, poi, siamo un argine all’ipotesi di un nuovo Nazareno. E siamo un argine al Pd, che vuole alzare gli stipendi dei parlamentari. E a Orbán e Putin. E alle armi facili. E ai privilegi della casta. E all’illegalità. E al sovranismo. Le ha dette tutte, e ne ha dette anche altre. A quanti argini siamo? Ho perso il conto, ma tutto questo rassicurare mi ricorda tanto la campagna elettorale di Forlani nel 1992 – solo che il segretario democristiano ci arrivava a quasi settant’anni e dopo mezzo secolo di governo ininterrotto, mentre al giovanissimo capo politico casaleggiano è bastato un anno per ritrovarsi in mano – unica carta da giocare – la promessa che il M5s impedirà ad altri di fare questo o quello. Come prevedibile, una buona metà del nostro establishment imbelle ci casca o fa finta di cascarci. E c’è ancora chi riesce a dire, restando serio, che dobbiamo ringraziare il M5s se non abbiamo Alba dorata.

 

L’argine è lo strumento retorico più caro ai mestatori, che dopo aver soffiato sul fuoco si presentano come gli unici in grado di domare l’incendio. “Siamo noi, noi dell’Uomo Qualunque, che abbiamo impedito la guerra civile in Italia, noi che abbiamo indotto i perseguitati a non commettere atti disperati”, diceva nel 1946 Guglielmo Giannini – ma nessuna persona di senno lo prese sul serio. “Noi siamo un argine per l’ordine civile. Se non ci fossimo noi che traduciamo questo malessere in battaglia politica voi avreste una situazione molto differente”, diceva prima delle elezioni del 2018 il fascista Roberto Fiore, leader di  Forza Nuova – e lui pure, nessuno lo prese sul serio.

 

Con Di Maio, però, migliaia di pesci fanno la gara ad abboccare. Da vicepresidente della Camera faceva cose dell’altro mondo, esortava la folla a circondare il Senato per impedire all’aula di approvare il Rosatellum, ma oggi va dalla Gruber a dire che nessuno può sospettarlo di scarsa moderazione, lui che ha ricoperto un ruolo istituzionale così delicato. Su imbeccata di Casalino lanciò la pagliacciata eversiva dell’impeachment a Mattarella, ma anche quella notte arrivò, puntuale, la voce della prudenza e della ragione: “In questo momento dobbiamo mantenere la calma, anche se comprendo che la prima reazione è quella di chiamare la piazza per dire che gli italiani non vogliono essere schiavi della finanza. Ma questo oggi è rischioso, e presta il fianco ai nemici della nazione che stasera si sono palesati in maniera incredibile”. Questo invito alla calma, però, non venne da Di Maio, venne da un altro autorevole argine, un sodale dell’editore del ministro dell’Interno: Simone Di Stefano di CasaPound. Il problema degli argini, come si vede, è che tendono a spostarsi in là e poi ancora più in là, ogni giorno più alti e più arcigni. Viviamo in tempi straripanti, ma rischiamo di colare a picco, presi in trappola tra quelli della diga e quelli della Digos.

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