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Non esiste un radicalismo di serie B

Claudio Cerasa

Contro i minimizzatori dell’estremismo che vedono i cattivi maestri solo quando gli fa comodo

Gli estremismi si tengono insieme, vanno in giro a braccetto, si coccolano a distanza, si prendono cura l’uno dell’altro, non conoscono le sfumature, non conoscono il grigio, non conoscono altro colore che non sia il bianco o il nero e per esistere non possono fare a meno del radicalismo dell’altro. I suprematisti hanno bisogno degli islamisti per dimostrare che la razza bianca è sotto attacco dei musulmani. Gli islamisti hanno bisogno dei suprematisti per dimostrare che l’islam è sotto attacco dei difensori della razza bianca. I nazionalisti hanno bisogno del gesto criminale di uno straniero-non straniero per dimostrare che la nazione è sotto attacco degli stranieri. Gli estremisti anti nazionalisti hanno bisogno di un tweet xenofobo di un nazionalista per dimostrare che il proprio paese è in ostaggio dei razzisti. Gli estremismi hanno gradazioni molto diverse, ci sono quelli più pericolosi, quelli meno pericolosi, quelli più diffusi, quelli meno diffusi, ma non c’è estremismo che non rappresenti un pericolo che non valga la pena di essere combattuto con tutte le armi a disposizione.

   

Per combattere una qualsiasi forma di estremismo è necessario, anche se non è sufficiente, avere un sistema di sicurezza che permetta di intervenire con tempismo per disinnescare le armi dell’odio. Ma per combattere con coerenza una qualsiasi forma di estremismo è necessario agire anche su un campo molto diverso rispetto a quello della sicurezza, che ha a che fare più con l’intelligenza delle persone che con l’intelligence di un paese. Non si può combattere l’estremismo senza avere delle forze dell’ordine addestrate come si deve. Ma non si può combattere l’estremismo senza avere un’opinione pubblica pronta a disarmare il dibattito politico e pronta a non minimizzare alcun tipo di estremismo. Non minimizzare l’estremismo significa non trasformare gli estremisti in figure pazze, squilibrate e con evidenti disturbi psichici solo quando questi giustificano i propri atti estremi usando un linguaggio non distante dal proprio: se un estremista uccide in nome di un Dio, chi si riconosce in quel Dio non può non farsi alcune domande sulla propria religione; se un estremista uccide in nome della dottrina nazionalista, chi si riconosce in quella dottrina non può non farsi alcune domande sul suo credo politico; se un estremista tenta di fare una strage di bambini per lanciare un messaggio ai politici italiani accusati di essere i responsabili delle stragi in mare dei migranti, chi accusa ogni giorno quei politici di essere i mandanti delle stragi dei migranti in mare non può non farsi alcune domande sugli eccessi della propria propaganda.

   

In un bellissimo articolo pubblicato venerdì scorso sul Washington Post, Anne Applebaum, formidabile giornalista e saggista americana naturalizzata polacca, commentando le stragi nelle moschee della Nuova Zelanda si è posta una domanda semplice e spiazzante: “Radicalism kills: why do we only care about one kind?”. La ragione per cui in modo quasi istintivo ciascuno di noi tende intimamente ad avere a cuore la lotta contro un radicalismo piuttosto che contro un altro è legata al fatto che ogni radicalismo è diverso dall’altro e che esistono radicalismi che vengono percepiti come minacce superiori rispetto ad altri. Ma in realtà nel momento in cui si sceglie di sottovalutare un radicalismo o una forma di estremismo – e nel momento in cui si cerca di minimizzare ora un attentato di un islamista, ora un attentato di un suprematista, ora un attentato di un estremista dell’antipolitica umanitaria cercando di individuare i cattivi maestri di una forma di estremismo piuttosto che di un’altra – ciascuno di noi fa involontariamente una scelta di tipo diverso: decide di non condannare e di non interessarsi a una forma di radicalismo perché quel radicalismo ci dice qualcosa di noi che non vogliamo ammettere. Gli estremismi non conoscono il grigio, non conoscono le sfumature, non conoscono altro colore che non sia il bianco o il nero. E proprio per questo, per combattere il radicalismo, occorre disarmare il dibattito pubblico, chiamare le cose con il loro nome e ricordarsi, anche osservando gli occhi spiazzanti di Samir, il ragazzo di origine marocchina che con una telefonata a casa ha salvato cinquanta compagni tenuti in ostaggio da un italiano di origine senegalese su un autobus diretto a Crema, che la realtà ha molte sfumature, e che ignorarne una significa semplicemente aver deciso che non tutti gli estremismi meritano di essere condannati allo stesso modo.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.