Antonio Di Maio in un fotogramma del video “di pentimento” pubblicato su Fb

Di Maio si dimetta, ma non da ministro: da figlio

Salvatore Merlo

Il vicepremier grillino obbliga suo padre a una umiliante video confessione: “Mi dispiace”. Il format del Medioevo

Roma. Adesso Luigi Di Maio dovrebbe dimettersi, ma non da ministro: da figlio. Come in una triste parodia dei funzionari stalinisti, lunedì mattina quelli dello staff della Casaleggio Associati, piccoli Berja senza la demoniaca grandezza del vero orrore, sono andati a casa Di Maio, a Pomigliano, con una telecamera. E lì, mandati dal figlio Luigi, hanno fatto pronunciare al papà Antonio un’autoaccusa di cinque minuti e trenta secondi, una confessione di pentimento, un autodafé, un video diffuso via Facebook con la solita confezione grafica dei grandi annunci del blog grillino, come per il reddito di cittadinanza o il restitution day. Ma stavolta c’era papà. Il vestito della domenica, la lingua povera, lo sguardo incerto – “sono emozionato” – gli anacoluti, il volto segnato di chi evidentemente ha impegnato la sua intera esistenza a sbarcare il lunario per mantenere la famiglia e anche quel Luigi che di studiare non aveva tanta voglia.

  

“Sono un piccolo imprenditore che ha commesso degli errori”, “voglio dire a Luigi che mi dispiace per tutto quello che sta passando”. Nudo davanti a tutti, sputatemi in faccia, confesso. Pur di aggrapparsi al suo declinante consenso, Luigi Di Maio espone suo padre e lo consegna alla violenza di un atto medievale. Segno dei tempi. Tempi selvaggi. Ma cosa ha fatto di male papà Di Maio, a parte aver messo al mondo un figlio che gli manda i funzionari di Casaleggio a casa? Non c’è chi non capisca che in questa vicenda di lavoro in nero, elusione fiscale e microscopici abusi edilizi, c’è, capitolo giudiziario a parte, la banalissima arte italiana di arrangiarsi. E infatti il problema non è Antonio, ma Luigi. E’ Luigi che contro queste cose ha costruito la sua filosofia politica. Ed è lui che dovrebbe chiedere scusa. 

     

E insomma oggi scopriamo che Di Maio ha sostanzialmente costruito la sua filosofia politica contro se stesso, niente meno. Esponendo in pubblico il suo vecchio papà, facendo sentire e misurare a tutti quel linguaggio ancora più stentato del suo, Di Maio ha mostrato al paese quell’antropologia scalcagnata dalla quale proviene ma dalla quale tenta di fuggire con le Montblanc nel taschino e le cravatte di Marinella al collo. Un’antropologia composta di piccole furbizie, acrobazie contro il fiscalismo dello stato, il più classico tirare a campare, una storia arci-italiana che non scandalizza nessuno. Tranne Giggino. Un modo di essere che tanto più lui rinnega, tanto più finisce però con il confermare, con il cucirselo addosso, quasi una pelle.

 

Avrebbe potuto sorridere e persino ridere delle accuse al papà, ridurle alla loro dimensione, spiegare che “siamo nati qua, a Pomigliano. L’ambiente è quello che è. Lo so, ha sbagliato. Ma che vi devo dire? Guardatevi intorno. Rispetto a tanti altri mio padre è un santo”. E invece no. Lui si vergogna, perché il suo successo politico, il potere che ha acquisito, la sua stessa sopravvivenza a Palazzo Chigi, derivano da una filosofia forsennata che è il contrario dell’equilibrio, la tracimazione rancorosa di tutti i più vieti luoghi comuni del suburbio, e che fa corrispondere persino la comunissima arte di arrangiarsi, tipica del meridione italiano, l’irresistibile imbroglio di sempre, a un delitto osceno. Ed ecco allora il video su Facebook, violento e impietoso, barbarico, con la confessione estorta al papà, che sembra il povero Rubashov, il protagonista del “Buio a mezzogiorno”, il romanzo di Arthur Koestler: “Sono un controrivoluzionario. Confesso. Avevo quattro lavoratori in nero”. Che delitto! In un paese, l’Italia, in cui la prima cosa che ti dice persino l’idraulico, quando viene a casa è: “Dotto’, senza fattura le faccio lo sconto, che facciamo?”.

   

Dunque Di Maio-figlio costringe Di Maio-padre a umiliarsi. E lo fa con la stessa facilità con la quale a un certo punto, qualche anno fa, appena entrato in Parlamento, cominciò a indossare la grisaglia, una specie di travestimento: il complesso d’inferiorità e il malessere del diplomato fuoricorso che vive la tragedia di non essere ciò che vorrebbe. Ma papà non è una cravatta. E allora continui pure a fare (male) il vicepresidente del Consiglio, almeno fino a quando gli italiani non lo cacceranno via. Ma intanto Luigi Di Maio, detto da papà, si dimetta da figlio.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.