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Roberto Fico e la congiura degli Eguali

Luigi Manconi

Dietro la vicenda del presidente della Camera e della sua collaboratrice domestica emerge una importante questione di filosofia morale, l’esaltazione della mediocrità

Grazie al cielo sono un garantista (addirittura peloso) e non avverto nemmeno la più sommessa tentazione per quel giustizialismo stracciaculo che oggi sembra dominare; e del quale il partito 5 stelle rappresenta la punta di lancia e il deposito inesauribile. D’altra parte, qualche decennio fa, in una circostanza assai complicata, non fui affatto garantista: ed è quanto, giustamente, mi viene tuttora rimproverato. Dunque, allo stato attuale delle cose e delle prove, non intendo accusare o censurare Roberto Fico o qualcun altro. E non ricorrerò, certo, a quella formula bolsa che recita “vizi privati e pubbliche virtù”. La coerenza assoluta tra parole e comportamenti non è di questo mondo, nessuno è innocente e, soprattutto, “chi sono io per giudicare?”. Non parlerò, di conseguenza, di ciò che dice il presidente della Camera, ma di ciò che suppongo dicano gli italiani del presidente della Camera e degli altri leader del Movimento 5 stelle. Esercizio non inutile perché dietro questa modesta vicenda emerge una importante questione di filosofia morale.

  

Al di là dello scandaletto sollevato dal servizio televisivo delle Iene, sul quale sono totalmente condivisibili le considerazioni del Fatto quotidiano (la questione riguarda eventualmente le autonome scelte di una donna indipendente e oggi gravata da una difficile situazione personale) si scorge un paradigma generale. Se prendiamo un campione rappresentativo di italiani e chiediamo loro cosa pensino di due fatti che hanno assunto rilievo politico, entrambi relativi a comportamenti individuali di un’autorità pubblica, avremmo risposte abissalmente diverse. Quelle persone, se interpellate sulla mancata regolarizzazione di una collaboratrice domestica (sempre che il fatto risponda a verità, cosa tutt’altro che accertata), si mostrerebbero scandalizzate, diciamo così, nella percentuale del 10 per cento. Se a quello stesso campione chiedessimo un giudizio sulla rinuncia all’utilizzo dell’auto blu, avremmo un apprezzamento entusiastico intorno, ipotizzo, al 75 per cento. Credo che su una simile vastissima discrepanza nella valutazione di due diverse scelte, siamo tutti d’accordo. Ma quali considerazioni generali è possibile ricavarne?

   

Senza voler strafare, penso che ne possa conseguire un contributo utile all’analisi del successo elettorale del M5s. E che possa spiegare anche come mai fatti quali la mancata “restituzione” di parte dei contributi promessi o episodi di acclarato mal costume o, ancora, la grottesca vicenda di rimborsi spese equivalenti a tre volte un salario operaio, non abbiano minimamente intaccato il consenso verso quel movimento. Anzi. L’equivoco si basa su un luogo comune diventato ormai un consolidato modulo interpretativo. L’idea, cioè, che elettori e militanti ritengano la leadership nazionale e quelle locali dei 5 stelle costituite dai “migliori”. In altre parole, da coloro che si presume siano i più incorrotti i più morali i più virtuosi. Non è affatto così. Elettori e militanti ritengono, all’opposto, che le leadership 5 stelle siano esattamente come loro. Ovvero corrotti ma non troppo (come tutti gli italiani), immorali ma neanche tanto (come tutti gli italiani), un po’ virtuosi e un po’ viziosi (come tutti gli italiani). Come tutti noi. Come tutti, cioè, rubano le penne ovunque le trovino, non pagano i contributi ai dipendenti e, se possono, non battono lo scontrino e non pagano il biglietto. Questa lettura disincantata e nichilista ha perso ogni tratto drammatico e qualunque dimensione, per così dire, antropologica, per immeschinirsi in un dozzinale cinismo e in un indifferentismo da quattro soldi. Insomma, l’esaltazione della mediocrità e della contraffazione come carattere nazionale. In questo scenario, la classe dirigente 5 Stelle non costituisce una élite titolare di una qualunque superiorità morale, ma si riduce alla rappresentanza di poveracci, come noi, che si arrabattano per evitare il peggio e per dare l’immagine migliore possibile di sé stessi. Questa classe dirigente dispone di tutt’altre doti: ed è in ragione di queste che si definisce, appunto, classe dirigente. Doti propriamente agonistiche: energetiche, tecniche, organizzative, oratorie, agitatorie, declamatorie, gestuali, attoriali, insomma “espressive”. Al punto che l’annuncio, il più tonitruante possibile, funziona in sé e per sé: senza alcuna necessità di applicazione e, tantomeno, di verifica.

   

Così che un altissimo esponente istituzionale che ha fatto della sua persona l’icona stessa della sobrietà può farsi accompagnare – anche qui, sempre che sia dimostrato – dall’auto di stato da Napoli a Montecitorio. Scelta, peraltro, assai più ragionevole di quella – dispendiosissima e pericolosissima – di muoversi a Roma a piedi circondato da un girotondo nutritissimo di uomini della sicurezza. E sono esattamente questi i connotati di una leadership che si forma fuori da ogni ideologia e fin da ogni cultura politica, ancorché rudimentale. Sono gli unici talenti richiesti per riscattare una generale mediocrità condivisa, destinata a diventare anti-establishment, anti-élite e, infine, anti-politica. E ciò più per le interpretazioni datene dagli osservatori che per autonoma autorappresentazione da parte dei diretti interessati. La base psicologica e sociale di tutto ciò non può che essere il rancore, qui inteso – a differenza di quanto fa il Censis – più come volontà di rivalsa che sentimento di frustrazione. Più come revanscismo che come mortificazione. Dunque è l’insubordinazione degli agitatori più abili e pugnaci, non la rivoluzione religiosa dei monarcomachi. Quindi, sanculotti e non zeloti, descamisados e non gesuiti in armi. Insomma, una Società degli Eguali col suo relativo “direttorio segreto” (1796).

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