Jericho, Illustration for La Terre-Sainte et les lieux illustrés par les

Le sette montagne che stanno davanti ai populisti

Stefano Cingolani

La politica estera, Putin, gli Stati Uniti e i programmi cambiati col bianchetto. Le tasse e la lotta alla povertà, il debito pubblico, le grandi crisi aziendali e l’eventuale intervento dello stato. E l’ombra di una nuova casta

Sette è da sempre numero magico, sacro, misterioso. Sette sigilli si spezzano e sette trombe squillano, poi arriva l’Apocalisse; la Bibbia condanna i sette peccati capitali, mentre i sette pilastri della saggezza si ergono dalle sabbie del Wadi Rum. Nel piccolo della nostra Italia politica, ecco spuntare sette montagne, quelle che dovranno scalare i vincitori delle elezioni se e quando andranno al governo. Perché una cosa è promettere, un’altra deliberare. Lo si è capito subito quando ha fatto irruzione una variabile che pochi si attendevano: la politica estera; sì, proprio la stessa, come ha ricordato Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, che ha accompagnato la vita della Repubblica italiana, non solo della Prima durante la Guerra fredda, ma anche della Seconda con la guerra asimmetrica al terrorismo islamico e la Terza (si fa per dire) con il conflitto ormai evidente tra i tre signori del nuovo mondo: Stati Uniti, Russia e Cina.

  

La prima montagna emerge dal Mediterraneo con la reazione di Usa, Francia e Gran Bretagna all’ultima provocazione di Assad

1. La prima montagna, dunque, emerge dal Mediterraneo con l’aggravarsi della guerra in Siria e la reazione di Usa, Francia e Gran Bretagna all’ultima provocazione di Bashar Assad e dei suoi alleati russo-iraniani: l’uso spregiudicato e sproporzionato delle armi chimiche. Le tante chiacchiere ascoltate durante la campagna elettorale diventano all’improvviso parole pesanti come pietre. Matteo Salvini reagisce con rapidità pavloviana esprimendo il punto di vista del “partito russo” e definendo “pazzesco” l’attacco missilistico dei tre paesi occidentali. Replica immediatamente Silvio Berlusconi contrapponendo lo spirito di Pratica di Mare, quando nel 2002 il governo presieduto dall’allora Cavaliere cercò di aprire un canale non solo di dialogo, ma di potenziale partnership tra Vladimir Putin e la Nato. Tanta acqua è passata sotto i ponti della Moscova come sotto quelli del Reno o del Po. In ogni caso Berlusconi ha tracciato la sua “linea sulla sabbia” e vale per tutto il centro-destra italiano. Quanto a Luigi Di Maio, ha farfugliato un “appoggio ai nostri alleati” sbugiardato dallo scoop di Luciano Capone sul Foglio: il programma pentastellato, il primo (e forse ultimo) votato online, è stato totalmente cambiato in particolare sulla politica estera, togliendo tutti gli attacchi alle “criminali potenze occidentali”, all’imperialismo americano e quant’altro. Un bianchetto che assomiglia a una cipria, un colpo di vento ed eccola volar via. “Non basta qualche dichiarazione per cancellare il passato – ha scritto Panebianco –. Solo il tempo ci dirà se si tratta di tatticismi o di un cambiamento strategico (lo vedremo presto: un vero cambiamento deve per forza innescare forti proteste interne)”. Finora s’è visto un protervo negare l’evidenza.

  

Davanti ai vincitori delle elezioni dilemmi divisivi: con Trump o con Putin, con Merkel o con Orbán, con Macron o con Assad? 

Un tentativo di far marcia indietro è venuto anche dalla Lega: il deputato Guglielmo Picchi, consigliere di Matteo Salvini sulla politica estera, ha spiegato al Foglio che il suo partito non è putinista né antiamericano. Il vero progetto è creare un blocco conservatore europeo con la destra ungherese, ceca, polacca. Dunque l’Italia contro l’Europa renana e con l’Europa centro-orientale, con i paesi del gruppo di Visegrad. Peccato che la maggior parte di loro sia visceralmente russofoba. Contraddizioni in seno al popolo, anzi al populismo. La realtà è che oggi si presentano davanti ai vincitori delle elezioni dilemmi divisivi: con Trump o con Putin, con Merkel o con Orbán, con Macron o con Assad? In attesa di scegliere, Rodomonte scende da cavallo: “Bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa / che fu sì altera al mondo e sì orgogliosa”, cantava Ludovico Ariosto concludendo l’Orlando furioso.

  

2. Dalle “squallide ripe d’Acheronte” ecco materializzarsi il nuovo fantasma della povertà. Evocato con voluttà dal circo politico-mediatico, è diventato un simulacro del reale, a momenti una sacra rappresentazione. La crisi in Italia è stata più grave che negli altri paesi e ha spaccato il corpo sociale in più pezzi, la ripresa economica è troppo debole per ricomporli, la politica troppo demagogica per cercare risposte concrete a situazioni concrete, ecco emergere dunque le ricette semplici, le soluzioni salvifiche. Se poi le parole non corrispondono alle cose poco importa. Prendiamo il reddito di cittadinanza, proposta visionaria e trasversale, accarezzata da economisti di sinistra e di destra, premi Nobel keynesiani come James Meade e premi Nobel liberal-monetaristi come Milton Friedman. Decenni e decenni di discussioni nella Fabian society, il pensatoio laburista, e nella scuola di Chicago, non hanno partorito nessuna soluzione concreta e poche verità accertate. La prima è che una proposta egualitaria e universale come dare un reddito base a tutti i cittadini senza alcun legame con il lavoro né con la ricchezza, finisce per essere iniqua generando effetti indesiderati. Per evitare tutto ciò deve diventare un’altra cosa, cioè più simile a un reddito minimo, non un diritto per tutti, ma assistenza per pochi. In questo modo anche i costi diventano meno esplosivi. Chi sostiene che il reddito di cittadinanza potrebbe essere finanziato tassando i ricchi dimentica che tutte le simulazioni fin qui realizzate mostrano che bisognerebbe avere una aliquota marginale sui redditi più elevati superiore al 50 per cento. Con effetti negativi evidenti sul risparmio, l’investimento, la bilancia dei pagamenti (con probabili fughe di capitali).

  

Sul reddito di cittadinanza decenni di discussioni non hanno partorito nessuna soluzione concreta e poche verità accertate 

I pentastellati spesso hanno portato ad esempio l’Alaska, unico stato in cui c’è qualcosa di simile. Ma attenzione, l’Alaska ha 700 mila abitanti su una superficie sei volte superiore a quella italiana. E non si tratta affatto di reddito di cittadinanza. Lo stato infatti distribuisce ai cittadini gli utili di un fondo sovrano nel quale confluiscono gli introiti pubblici generati dal petrolio. La Norvegia ha creato anch’essa un fondo sovrano (investe molto anche in compagnie italiane), però il ricavato viene tenuto in cassaforte per garantire i servizi sociali alle prossime generazioni. Anche l’Italia potrebbe fare qualcosa di simile, se trovasse tanto petrolio come l’Alaska e la Norvegia. “Il turismo è il nostro petrolio”, si sente dire, già ma rappresenta appena un decimo del prodotto lordo e se venisse colpito con prelievi eccezionali crollerebbe ancora di più. Dunque, niente reddito di cittadinanza. Il Movimento 5 stelle ha fatto campagna elettorale con uno slogan che non risponde alla realtà. Questa volta non c’è nemmeno bisogno di svelare trucchi e manipolazioni segrete, basta leggere la proposta presentata in Parlamento nella scorsa legislatura: si tratta di sostenere chi è al di sotto della soglia di povertà vincolando l’erogazione monetaria con la ricerca di lavoro. Una soluzione non molto diversa da quella del Pd, anche se più generosa in termini di prerogative e di spesa.

  

La flat tax al bagno di realtà. L’imposta può funzionare a condizione di rimettere in discussione lo stato sociale

Nemmeno la flat tax esce indenne dal bagno di realtà. Proprio Milton Friedman aveva messo in stretto rapporto la tassazione più bassa possibile con l’esigenza di concedere un reddito base (sua è l’idea di una imposta negativa). Ma le difficoltà riguardano sia l’esigenza di riformare in modo radicale l’intero sistema tributario sia complesse questioni di principio. Una tassa uguale per tutti è efficace se disbosca la giungla fiscale ed elimina la selva di detrazioni, deduzioni, franchigie individuali e di categorie. Tuttavia una imposta proporzionale viola il principio di progressività, a meno di non reintrodurre tutte quelle eccezioni che hanno reso complicato e opprimente il fisco. Ammesso di superare questi dilemmi, si apre la voragine nel bilancio pubblico. Nel suo libro (Flat tax, Marsilio) l’economista Nicola Rossi ha dimostrato in modo molto chiaro che l’imposta può funzionare a condizione di rimettere in discussione anche il perimetro dello stato sociale. I conti tornano a tre condizioni: l’addio ai tanti pezzetti di welfare accumulati in modo disordinato negli anni (sostituiti dal “minimo vitale”), l’esclusione della gratuità dei servizi (per esempio la sanità) per i ceti più abbienti e un taglio strutturale alla spesa pubblica per quasi 70 miliardi (quattro punti di pil). Né la Lega né Forza Italia si sono spinte a tanto. E la flat tax è diventata una semplificazione del sistema riducendo non a una sola, ma a due le aliquote delle imposte sui redditi. Bene. Meglio di niente, sia chiaro, ma tra questo e l’idea originaria c’è un abisso.

  

Gli esempi di Alaska e Norvegia: l’Italia potrebbe fare qualcosa di simile solo se trovasse tanto petrolio come quei due stati 

Lo stesso gap tra parole e fatti riguarda la riforma Fornero. “La straccerò”, ha annunciato Matteo Salvini in campagna elettorale. Poi ha detto “se vado al governo la sospendo”. Adesso si parla di riforma e le proposte presentate dall’esperto leghista Alberto Brambilla fanno intravedere uno scambio politico-sociale a favore delle pensioni di anzianità e a scapito di quelle di vecchiaia. Ciò consente alle imprese di liberarsi della manodopera in eccesso scaricandola sul sistema pensionistico, un modo di accontentare il proprio elettorato. I pentastellati hanno idee diverse, cavalcano di più l’incertezza di quei giovani che vogliono una pensione prima ancora di aver trovato un lavoro.

  

3. E veniamo così alla terza montagna, il debito pubblico. Tutti hanno promesso di ridurlo, poi hanno presentato proposte che finiscono per aumentarlo. Il primo problema concreto che il nuovo governo si trova ad affrontare è la presentazione del Documento di economia e finanza. E’ stato rinviato per aspettare Godot, ma più si attende, peggio è. L’economia europea rallenta e la ripresa italiana (per quanto modesta) sta mostrando i primi segni di stanchezza. Dunque si rischia di dover aggiustare in basso le previsioni anche a legislazione invariata. E poi comincerà il gran ballo delle illusioni e della realtà. Per finanziare il reddito minimo del M5s occorrono almeno 15 miliardi. Ne servono altrettanti per evitare un aumento dell’Iva imposto dalle clausole europee di salvaguardia. E quanti ancora per rivedere le imposte sui redditi? Se si volesse applicare un’aliquota unica del 23 per cento ci vorrebbero 40 miliardi l’anno che salgono a 60 con un’aliquota del 20 e a ben 102 con il mitico 15 per cento. E via via spendendo e spandendo. “Sfondiamo il tetto del 3 per cento”, dicono i vincitori con diverse sfumature. Ma che cosa significa? In concreto vuol dire che l’Unione europea apre una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia con costi finanziari pesanti e soprattutto un impatto politico devastante. Qualcuno sogna di andare alle elezioni europee nel maggio 2019 cavalcando un sentimento di frustrazione e rivalsa, che diventerebbe rivolta aperta contro l’atteggiamento punitivo degli eurocrati di Bruxelles spinti dalla perfidia teutonica e dalla malizia gallica. Auguri. Forse l’euroscetticismo frutterà ancor più voti. Per poi scoprire che quel patrimonio politico non è spendibile, come un palazzone dalle stanze vuote che nessuno riesce a vendere.

  

Abbiamo parlato finora dei vincitori perché spetta a loro formare un governo, ma ambiguità e contraddizioni attraversano anche i perdenti, in particolare la sinistra sonoramente sconfitta e lo stesso Pd. Si fa strada la convinzione di non aver badato a sufficienza ai vinti lasciandoli così preda della Lega e del M5s, per aver accettato troppo a lungo il dogma liberista, chiudendo in gabbia il Leviatano. Altro che liberare l’economia e la società dai “lacci e lacciuoli”, si tratta di spezzare le catene che hanno bloccato i tentacoli della bestia. E’ quel che chiedono i populisti, ma il revisionismo neostatalista sta diventando senso comune e determina già scelte politiche importanti.

  

Cosa bisogna fare dell’Alitalia? E dell’Ilva? Le ipotesi, emerse prima del 4 marzo, di abbandonare l’acciaio per le energie alternative 

4. La quarta montagna, dunque, assomiglia a un pinnacolo dolomitico che spunta dall’oceano delle tempeste. Carlo Calenda nega qualsiasi ritorno ideologico, tuttavia la Cassa depositi e prestiti viene già adesso utilizzata ai limiti delle proprie possibilità e prerogative. Se poi entrerà nel suo perimetro anche la rete telefonica oltre quella elettrica e, chissà, un domani quella ferroviaria, più l’Alitalia, l’Ilva, altri grandi gruppi industriali, catene alberghiere, trasporti e quant’altro, ebbene a quel punto ci si troverà di fronte a un altro bel dilemma. Perché oltre un certo livello la Cdp non può andare senza mettere a repentaglio i 250 miliardi di risparmio postale. Dovrà trovare nuove risorse, o sul mercato emettendo obbligazioni a più non posso o a carico dei bilancio pubblico, cioè di tutti i contribuenti, esattamente come avveniva con l’Iri che ogni anno riceveva un fondo di dotazione la cui entità era proposta dal governo e approvata dal Parlamento. Nessun partito ha mai detto che vuole arrivare fin qui, e tuttavia ogni comportamento spinge verso questa direzione.

  

Il mutamento non riguarda solo la propaganda elettorale o la pubblica opinione, ma anche la cultura politica e l’informazione. Oggi passa senza contraddittorio la convinzione che lo stato sia in grado di gestire un’azienda, sia essa una impresa industriale, una banca o un albergo, meglio del privato, rispondendo nelle linee guida e nei principi ispiratori a un interesse pubblico che manager o capitalisti, invece, disattendono per loro natura. Dalli e dalli, tambureggia oggi tambureggia domani, non c’è più nemmeno l’onere della prova. Eppure un esempio molto concreto e molto ravvicinato sta sotto gli occhi di tutti. Prendiamo il Monte dei Paschi di Siena. La banca è arrivata sull’orlo dell’abisso ed è stata salvata un paio di volte senza violare la sua natura semi-privata (la fondazione resta pur sempre l’azionista numero uno). Poi il governo Gentiloni ha deciso di nazionalizzarla. Una operazione d’emergenza, definita “temporanea”. Tutti hanno detto e scritto che, diventando il Tesoro l’azionista di gran lunga prevalente (con due terzi del capitale), i mercati e gli investitori privati sarebbero stati più tranquilli, garantendo il tempo e il denaro necessari a risanare i bilanci e liberarsi dall’enorme fardello dei crediti deteriorati. Invece non è così. Il valore borsistico è crollato. Il bilancio è un colabrodo. I crediti marciscono. Anche se è cambiato il socio di riferimento e se sono cambiati i manager, il risanamento è lontano. Il Tesoro, al di là delle indubbie capacità e competenze dei suoi tecnici, si trova di fronte alle stesse difficoltà precedenti e scopre quel che molti sapevano già: di non avere maggiori e migliori informazioni né capacità superiori (tanto meno divinatorie) per risolvere una complessa crisi bancaria. Insomma, Friedrich von Hayek non aveva affatto torto; non basta darsi degli obiettivi corretti, né mettere in campo uomini e quattrini; l’interesse collettivo non si realizza con i proclami, ma con i fatti. Il Leviatano non è l’angelo custode né tanto meno il salvatore.

 

5. Le crisi aziendali, i tavoli aperti al ministero dello Sviluppo, i fallimenti di mercato e le questioni di politica industriale che si trascinano da anni senza soluzioni, rappresentano altrettanti pinnacoli della quinta montagna. E qui il silenzio dei partiti copre il chiacchiericcio elettorale. Che cosa bisogna fare dell’Alitalia? Dopo una lunga geremiade sui denari dei contribuenti gettati al vento, adesso rispunta la compagnia di bandiera. Un paese nel quale il turismo dovrebbe e potrebbe essere più importante, ha bisogno di una linea aerea con i propri colori. Perché British Airways, Air France e Lufthansa sì e Alitalia no? Il buon senso direbbe perché la compagnia italiana è troppo piccola e troppo appesantita dal passato. Ha perso molte occasioni per crescere e consolidarsi, lo sappiamo, quelle chance oggi non esistono più. Il nuovo primato della politica è in grado di liberare l’Alitalia da tutti i suoi fardelli e farla decollare al pari delle concorrenti maggiori? Oppure succederà come in passato o come al Montepaschi?

  

Ancor più problematica l’Ilva. Dopo aver espropriato la famiglia Riva e aver affittato il siderurgico di Taranto agli indiani di Arcelor Mittal, creare una nuova Italsider sotto l’usbergo della Cdp sembra del tutto fuori dalla realtà. Durante la campagna elettorale ha preso campo soprattutto nel M5s, ma non solo, l’idea di chiuderla, abbandonare l’acciaio per sviluppare energie alternative. Una soluzione intermedia sarebbe passare dall’altoforno al forno elettrico, facendo pagare dallo stato migliaia di lavoratori eccedenti (grosso modo la metà degli attuali occupati). Staremo a vedere, ma siamo pronti a scommettere che ci sono già parecchi gnomi esperti nel copia-incolla, pronti a pigiare sul tasto cancella.

  

Tutti hanno promesso di ridurre il debito pubblico, poi hanno presentato proposte che finiscono per aumentarlo 

6. Dopo un primo balzo sul carro dei vincitori, d’altra parte, in molti stanno tornando con i piedi per terra. La Confindustria per esempio. Il presidente Vincenzo Boccia ha riconosciuto di aver commesso un errore, forse per ingenuità, attribuendo immediatamente una patente democratica e governativa al Movimento 5 stelle. Lo stesso vale per Sergio Marchionne, che ingenuo non si può proprio definire. Ha agito un antico riflesso condizionato che ha spinto spesso le classi dirigenti a cavalcare pulsioni sovversive di vario genere e natura. Ma su questo annaspare alla ricerca di nuovi ancoraggi influisce anche la scomposizione in corso negli equilibri di potere a lungo egemoni nel capitalismo italiano, quelli che un tempo regolavano la Galassia del nord la quale ruota attorno alla triade Mediobanca-Unicredit-Assicurazioni Generali.

  

Sulla battaglia in corso per il controllo della Tim, molto è stato scritto e capiremo solo martedì prossimo, con l’assemblea dell’azienda telefonica, i veri rapporti di forza. Ma sembra chiaro che l’assedio attorno a Vincent Bolloré non è solo la conseguenza del suo comportamento arrogante. Elliott, uno di quei fondi chiamati un tempo speculativi, non è più un avvoltoio che s’avventa sulla preda, ma un cavaliere bianco che apre la strada alle truppe marcianti sotto la bandiera dell’interesse pubblico e nazionale. Insieme, Elliott e la Cdp potrebbero detronizzare Vivendi lanciando così un segnale ai “prefetti di Francia” scesi come gli armigeri di Carlo VIII per trarre vantaggio dei conflitti tra le signorie italiane. Non è una ricostruzione fantasiosa, è quel che dicono uomini del governo e dell’opposizione, vincitori e vinti, è quel che pensano i rinnovati “banchieri di sistema”, dal vecchio Giuseppe Guzzetti al ben più giovane Carlo Messina. Un risiko che, a differenza di quel che abbiamo visto in altre fasi, si nutre di sovranità.

  

Oltre un certo livello la Cassa depositi e prestiti non può andare senza mettere a repentaglio i 250 miliardi di risparmio postale

7. Una nuova casta? E’ la cima più alta di tutte che svetta da un vero e proprio massiccio montuoso. In un amaro editoriale sul Mattino il filosofo Biagio De Giovanni ha scritto che “il gioco delle parti tra i vincitori del 4 marzo sta raggiungendo livelli inaccettabili… Si intravede, in una confusione dentro la quale ogni tema di merito è letteralmente scomparso, il volto opaco di una nuova casta in formazione”. Intendiamoci, ogni società (da quella tribale a quella “liquida”) ha bisogno di una élite, una classe dirigente, un establishment. E tuttavia, tra uomini nuovi all’arrembaggio e vecchi boiardi al seguito, tra piccoli arrampicatori e grandi trasformisti, una volta depositato il fumo dell’ideologia populista, quel che si presenta oggi davanti ai nostri occhi, secondo De Giovanni, è lo spettacolo di “una casta che, liberata da tutti i vincoli che aveva mostrato in campagna elettorale, si è messa a giocare il gioco più puro della corsa al potere”. Poiché la democrazia, quella degli antichi e quella dei moderni, come ha scritto Karl Popper, non è il governo in mano al popolo, ma il potere di cambiare i propri governanti in modo regolato e pacifico, bisogna sperare con Emmanuel Macron, che “l’autorità della democrazia” spazi via “la democrazia autoritaria”. Vasto programma, non c’è che dire.

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