Diffidate di chi vi dice che per regolamentare qualcosa "serve una legge"

Alessandro Rico

L'errore di chi crede che lo stato debba legiferare su tutto

"Serve una legge" è uno dei tormentoni più gettonati nel dibattito pubblico, su una vastissima gamma di temi. E a sorprendere non è tanto che siano i politici a chiedere nuove leggi. E’ quasi ovvio che chi detiene il potere cerchi costantemente nuove materie da regolamentare. Stupisce, piuttosto, che siano gli opinionisti, i media (quelli che hanno inventato la nefasta misurazione della “produttività” dei parlamentari in base alle proposte di legge presentate) e i cittadini stessi a ripetere il mantra: “Serve una legge”. Lo abbiamo visto nel caso del testamento biologico. Lo avevamo visto con la legge Fiano sul fascismo, con le unioni civili, con l’omicidio stradale. La convinzione che serva sempre una legge, specchio di una fede incrollabile nella facoltà di pianificare politicamente ogni aspetto della vita associata, è davvero la superstizione più grande dei nostri tempi. Ed è una trappola insidiosa, perché come ha scritto giustamente monsignor Luigi Negri a proposito delle Dat, “una volta che lo stato inizia ad allargare le sue competenze sugli spazi della vita personale e sociale, l’appetito vien mangiando”.

 

Urge, allora, che conservatori, liberali e cattolici convincano le persone ad abbandonare la religio della legge come panacea, insistendo su un principio che li trova tutti d’accordo: l’idea, cioè, che gli ambiti disciplinati dallo stato debbano essere ridotti, non ampliati. E’ il tema della sussidiarietà, del “ciò che può fare la società, non faccia lo stato”, sempre caro al cattolicesimo anche se un po’ negletto, oggi che la chiesa non soltanto vuole più regolamentazioni, ma le vuole sotto l’egida di istituzioni globali.

 

Ci sono due ragioni principali per cui, quando sentite dire che “serve una legge”, dovreste metter mano alla pistola – e al portafoglio. La prima è che quello di legiferare è un vizio pericoloso quanto la droga. Si comincia pensando: “Smetto quando voglio”. Poi ci si prende la mano e ci si rende conto che aveva ragione Ronald Reagan, quando diceva che lo Stato “è come un bambino: da un lato, un canale alimentare con un grande appetito, dall’altro nessun senso di responsabilità”. E così le aree sottoposte alla legislazione aumentano esponenzialmente, finché ci sembrerà strano (ahimè, è già così) che ve ne siano alcune ancora non regolamentate. Per chi ha a cuore la libertà, si tratta di una deriva molto pericolosa.

 

La seconda motivazione è che, appunto, la fede nelle infinite risorse della legge non è altro che superstizione. Non appena emerge un problema nella vita associata, il primo pensiero dei “moderni”, ormai assuefatti a questa tirannia normativa, è che il legislatore debba intervenire per risolverlo. Ma i decisori politici non sono onniscienti; non sono capaci di controllare i meccanismi di coordinamento che presiedono al funzionamento di quelli che Friedrich von Hayek chiamava “ordini spontanei”. Anzi, proprio per questi motivi, chi fa le leggi spesso le sbaglia, il che poi lo induce a sfornarne altre per correggere gli errori e, quindi, a erodere altre libertà. A tal proposito, ci sono pagine illuminanti de I fallimenti dello Stato interventista, in cui Ludwig von Mises illustra tale spirale perversa applicando il ragionamento alla regolamentazione dei salari.

 

Un tempo era la mistica della volontà popolare ad alimentare il “mito” politico dell’inflazione legislativa, un fenomeno in tutto e per tutto simile all’inflazione monetaria, oltre che alla nota teoria di Thomas Gresham, per cui cattiva moneta scaccia buona moneta: le leggi cattive soppiantano le (poche) buone. Furono poi il miraggio della giustizia sociale e della pianificazione economica a spianare la strada alla sovrapproduzione normativa. Oggi, tramontato pure il sole del socialismo, rimangono le battaglie per i presunti “diritti civili”: diritti che si pretende siano sanciti e tutelati dallo stato e per il cui mantenimento, spesso e volentieri, bisogna presentare il conto al resto della cittadinanza.

 

In Freedom and the Law, Bruno Leoni sostenne che bisognerebbe rinunciare a servirsi dello strumento legislativo: 1) ogniqualvolta la legge serve a sfruttare le risorse prodotte da una minoranza; 2) ogniqualvolta gli individui possono raggiungere i loro obiettivi senza ricorrere a una decisione di gruppo; 3) ogniqualvolta ci sono mezzi alternativi che possono essere altrettanto efficaci. Ma, amaramente, il giurista torinese chiosava: “Se sottoponessimo la legislazione esistente all’esame che sto proponendo, mi chiedo quanta ne sopravvivrebbe”.

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