Beppe Grillo, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista protestano contro la nuova legge elettorale Ora sulle regole per le candidature i parlamentari M5s si muovono alla cieca (foto LaPresse)

Lost in Rosatellum

Valerio Valentini

La nuova legge elettorale costringe il M5s a ridefinire le regole per le primarie. Ma tra l’incognita dei collegi, il paracadute per i big e il doppio mandato c’è aria di disastro

Primarie, collegi, pluricandidature, listini bloccati. A volerla sintetizzare in modo un po’ brutale, si potrebbe dire che anche questa discussione rientra nella ormai consueta, e stancante, dialettica tra pragmatici e ortodossi. Tra chi, cioè, invoca una normalizzazione del Movimento, e chi invece addita qualsiasi proposta di cambiamento come un’abiura inaccettabile. “Ma guardate che non è questione di purezza”, precisa Andrea Cecconi, deputato pesarese a cinque stelle, trentatré anni e infermiere di professione. “E’ semmai una questione di coerenza: abbiamo i nostri principi e non possiamo ripudiarli solo perché adesso non ci sembrano più convenienti”. E però un senatore pentastellato, molto amico di Vito Crimi, uno di quelli che la scorsa settimana più si sono messi in mostra nelle sceneggiate contro Denis Verdini a Palazzo Madama, quando gli si chiede un parere sbuffa sconsolato: “Finirà che anche stavolta, a furia di non voler guardare in faccia la realtà, ci daremo la zappa sui piedi”. E la realtà, secondo il senatore, è quella di “una legge elettorale pensata apposta per affossarci”. E per spiegare il rischio connesso a quella che lui definisce “una certa nostra vocazione all’autolesionismo”, l’onorevole sceglie una metafora bellica: “E’ come se ci avessero imposto di andare in guerra armati di spada ad affrontare un plotone di fucilieri. E va bene, combattiamo. Ma almeno non costringiamoci anche a scendere sul campo di battaglia con una mano legata dietro la schiena”.

 

C’è parecchio vittimismo, e non poca preoccupazione, nelle parole che i parlamentari del M5s scelgono per commentare il Rosatellum bis. Una legge elettorale che Di Maio e compagnia non hanno mai apprezzato né votato, ma che pure hanno studiato bene, giacché è con quella che dovranno fare i conti, da qui al marzo 2018. “Effettivamente è un argomento delicatissimo”, ammette Alberto Airola. Ed è tra i pochi, a essere sincero fino in fondo. Perché invece i suoi colleghi nicchiano, ostentano quasi indifferenza (“Non ne abbiamo ancora parlato”). E tuttavia basta insistere appena qualche minuto, fare giusto qualche domanda in più, per sentirli accatastare cifre e sondaggi, argomentare in modo perfino pedante su inezie e bizantinerie.

 

"Finirà che anche stavolta, pur di non guardare la realtà e cambiare le regole, ci daremo la zappa sui piedi ", dice un senatore grillino

Parrà strano, a ripensare alla veemenza con cui per anni l’hanno criminalizzato, ma il Porcellum per i cinque stelle sembrava fatto apposta. “Diciamo meglio – corregge Andrea Colletti, deputato pescarese – le regole che avevamo elaborato nel 2013 per scegliere i nostri parlamentari erano tarate proprio sulla legge elettorale di allora”. Adesso, invece, il Rosatellum cambia tutto. E costringe i grillini a interrogarsi sui metodi da seguire per scegliere i propri candidati. “La novità principale sono i collegi uninominali, effettivamente”, spiega Colletti. “Come pensiamo di affrontare il problema? E’ ancora presto per dirlo con certezza, devo ancora confrontarmi coi colleghi parlamentari per capire che aria tira”. E i colleghi effettivamente discutono della questione, e non da oggi. “Ma è solo un pour parler”, s’affrettano a precisare. Insomma, nulla di ufficiale: ché del resto le regole non possono mica essere elaborate, e neppure suggerite, da deputati e senatori riuniti in assemblea, altrimenti ci sarebbe un illecito avvantaggiarsi dei parlamentarsi sul resto degli iscritti. E non sia mai.“No, no – spiega Cecconi – è il capo politico che propone le norme (a proposito: Di Maio o Beppe Grillo? “Eh, boh, mo’ vediamo”) e il Comitato d’appello – composto da Crimi, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri – che le approva, prima di rimettere tutti al giudizio insindacabile della Rete”.

 

Al di là di questa babelica burocrazia digitale, il problema dei 231 collegi uninominali previsti dal Rosatellum per la Camera (per il Senato sono 102) è consistente. E il regolamento ufficiale, certo, non è ancora comparso sul Sacro blog, ma gli orientamenti sono abbastanza chiari ai parlamentari. Per scegliere i candidati si ricorrerà alle primarie online, come al solito. Primarie su base regionale. E qui comincia il rompicapo: perché, banalmente, i collegi sono molto più numerosi delle regioni. E dunque come verranno distribuiti i candidati? “Il discrimine fondamentale è quello della residenza: se vinci alle primarie regionali vieni assegnato al collegio dove abiti”, scandisce serafico Cecconi, che è in commissione Affari costituzionali e il dossier del Rosatellum lo ha seguito con scrupolo. 

 

La questione, a ben vedere, non la si può liquidare con tanta sufficienza. Innazitutto perché è assai improbabile che i vincitori delle consultazioni online risiedano ognuno in un collegio diverso, e bisognerà dunque intervenire a posteriori per garantire la copertura dell’intero territorio. In che modo? Qui la certezza di Cecconi si frantuma, il suo ragionare lucido e brillante s’avviluppa e si contorce. Intervengono allora i suoi colleghi: “Probabilmente si farà così. I primi classificati andranno automaticamente nei rispettivi collegi di residenza. Poi, se ci dovessero essere sovrapposizioni, allora mano mano gli altri vincitori, a scalare nella classifica, indicheranno un collegio in cui vogliono correre. Insomma, chi prenderà più voti avrà più possibilità di scegliere il posto dove candidarsi, gli altri andranno a riempire i collegi vacanti”. Eppoi però c’è ancora un altro inceppo: il Rosatellum prevede un equilibrio di genere nelle liste di ciascuna forza politica su base regionale. Né uomini né donne possono essere rappresentati in misura superiore al 60 per cento. Perciò, chi organizzerà delle primarie, dovrà poi bilanciare a cose fatte gli elenchi dei candidati. Pertanto gli esponenti del sesso sovrarappresentato che otterranno meno voti in percentuale nelle varie primarie online regionali lasceranno il posto ai primi degli esclusi – sempre in termini di percentuale – dell’altro sesso, fino a raggiungere il fatidico 60-40. Un ripescaggio in piena regola.

 

Cecconi:"A noi non frega niente dei collegi. Quella della sfida a chi ottiene un voto in più degli avversari è una menata di Renzi"

La questione più delicata, in ogni caso, è un’altra. Qualcuno la prende alla larga: “Diciamo che c’è la necessità obiettiva di salvaguardare alcune delle figure più esperte del Movimento, di cui i gruppi parlamentari non possono fare a meno con tanta leggerezza”. Diciamo, cioè, che molti dei notabili pentastellati, molti dei personaggi carismatici, rischierebbero di non vincere nella sfida secca dei collegi uninominali. E quindi, nei conciliaboli in Transatlantico, si è pensato bene di ammettere una pluricandidatura: “Il concorrente nell’uninominale deve essere anche il primo del listino proporzionale connesso”. In sostanza, il Rosatellum prevede che solo il 36 per cento dei prossimi onorevoli verrà scelto col maggioritario: 231 deputati e 102 senatori. I restanti (388 a Montecitorio, escludendo le circoscrizioni estere, e 207 a Palazzo Madama) saranno eletti in collegi proporzionali, che dovranno essere disegnati dal Viminale ma che saranno circa 65, distribuiti su 28 circoscrizioni per la Camera e 20 per il Senato. “Tutto abbastanza complicato”, sorride Gianluca Castaldi, senatore abruzzese, mentre si dilunga nelle spiegazioni. E allora semplifichiamo? “Va bene. In sostanza, l’idea potrebbe essere quella di concedere il primo posto nel listino del proporzionale al candidato di collegio uninominale annesso”. Insomma, per dirla coi termini canonici: un paracadute. Se anche non vinco nella sfida maggioritaria, dove trionfa chi prende un voto più degli altri, vengo comunque ripescato grazie al proporzionale, e il posto in Parlamento lo ottengo lo stesso. E però è evidente che non tutti i portacolori grillini nei collegi potranno ambire a tanto: non foss’altro per il fatto che 231 e 102 – ovvero i candidati nell’uninominale – sono numeri molto maggiori di 65, i capilista dei listini del proporzionale. E come se ne esce? Qui, tra i parlamentari sondati, in tanti restano interdetti. Qualcuno propone comunque un principio a suo modo meritocratico: Airola, ad esempio, pur precisando che si tratta solo di un suo pensiero, azzarda: “Chi ottiene il voto percentuale maggiore diventa capolista. E gli altri a scalare”.

 

Cecconi però è contrario. E non su questo ultimo dettaglio: “Io non ci sto proprio sull’ipotesi della doppia candidatura”. Premette, ovviamente, che si rimetterà comunque “alla volontà della rete”, e ci mancherebbe. E tuttavia s’accalora: “Non possiamo permettercelo, sarebbe comunque una violazione di un nostro principio. Piuttosto, credo sarebbe meglio che chi vince le primarie online ottiene il primo posto nel listino proporzionale. Ma non dobbiamo far sì che lo stesso nome compaia due volte nella scheda elettorale. Noi no”. Ma allora dei collegi cosa ne sarà? In che modo si sceglieranno i portacolori grillini per le sfide dirette? Cecconi si ricompone e la liquida sbrigativamente, la questione. Dice: “Guardate che al Movimento, così come a tutte le altre forze politiche, dei collegi non frega un bel niente. Quella della sfida a chi ottiene un voto in più degli avversari è una menata di Matteo Renzi, che come al solito la butta in caciara”.

 

Il tutto, poi, si complica ancora di più per gli strateghi pentastellati, veri o presunti. Perché oltre alle regole che serviranno per affrontare la campagna elettorale, il movimento dovrà discuterne anche alcune che riguardano il funzionamento della propria macchina. Una su tutte: il limite dei quarant’anni. “Nel 2013 – ricorda Castaldi – si era deciso che chi avesse superato quell’età avrebbe dovuto automaticamente candidarsi per il Senato. Ora, però, tanti di quelli che all’epoca erano di poco sotto, e pertanto vennero destinati a Montecitorio, si ritroverebbero concorrere per gli scranni di Palazzo Madama. Dove, a quel punto, ci sarebbe molto intasamento, con una concorrenza enorme per pochi posti. E al contempo, ci ritroveremmo scoperti alla Camera, dove dovremmo fare a meno di tanti deputati esperti”.

 

Per scegliere i candidati si ricorrerà a primarie online su base regionale. Ma i collegi sono 231, le regioni 20. Come se ne esce?

E qui sta l’altro grande dilemma: inserire oppure no, tra i requisiti per candidarsi al Parlamento, quello di aver svolto già un mandato? Per i più affezionati ai principi originari, di cui Cecconi si fa portavoce, farlo significherebbe “introdurre una corsia preferenziale per noi, attuali deputati e senatori”. Dunque meglio di no, “nel rispetto di chi in questi cinque anni è rimasto fuori dai palazzi della politica romana ma si è impegnato quanto chi stava dentro, e forse anche di più”. Dall’altro lato, c’è chi, come Airola, ripete che “la competenza è un valore, e non possiamo permetterci di disperdere l’esperienza accumulata in questa legislatura per ricominciare tutto da zero, o quasi”. Il compromesso, allora, potrebbe essere equiparare le cariche svolte: sia chi ha fatto il senatore, sia chi ha ricoperto il ruolo di consigliere circoscrizionale, vanterebbe comunque un mandato svolto, e verrebbe ammesso alle primarie online. Un po’ com’è stato per le “gigginarie”, quelle che hanno incoronato Di Maio candidato premier. Solo che sarebbe un compromesso un po’ ipocrita: perché avvantaggerebbe comunque i parlamentari attuali, dacché chi al momento ricopre altri incarichi non può, per regolamento, dimettersi anzitempo. E non essendoci scadenze elettorali importanti a marzo 2018, a parte le regionali laziali, gli unici ad avere un mandato nel curriculum spendibile sarebbero proprio deputati e senatori eletti nel 2013. Oltre, s’intende, a quella manciata di portavoce più scaltri – o più arrivisti, a seconda dei punti di vista – della media, che dopo aver svolto un mandato in amministrazioni locali, hanno deciso di saltare il turno nell’attesa della sfida parlamentare. E’ il caso, ad esempio, di Alvise Maniero, ventiseienne sindaco uscente di Mira che lo scorso febbraio, nonostante le ottime probabilità di riconferma – o forse proprio alla luce di quelle – decise di non ricandidarsi; oppure di Mattia Calise, riccioluto frontrunner pentastellato alle comunali milanesi del 2011, quelle vinte da Giuliano Pisapia, che nel 2016 passò la mano. “Per concludere gli studi universitari rimasti in sospeso”, si giustificò. Per evitare di sprecare anche il secondo gettone, in verità. E così aggirare il limite dei due mandati, totem fino a oggi inviolabile del grillismo ma ultimamente rimesso più volte in discussione.

 

“I due mandati per ora non si toccano”, ripetono i parlamentari a cinque stelle, ponendo comunque – non tutti, ma neppure in pochi – particolare attenzione a far risuonare con enfasi quel per ora. “Invece – concordano quasi unanimi – bisognerà, quello sì, rimuovere la regola della rotazione trimestrale dei capigruppo alla Camera e al Senato. Novanta giorni sono davvero pochi per comprendere certe dinamiche, certi equilibri: e proprio quando cominci a familiarizzarci, devi cedere il testimone a un tuo collega. Col risultato che nella capigruppo gli altri partiti ti mettono puntualmente a giro”.

 

Segno, dunque, che con la realtà della politica anche il Movimento, pur tra mille contraddizioni, comincia piano piano a voler fare i conti. Presto o tardi, chissà, arriverà perfino a comprendere che i metodi della Prima repubblica, di quando i capicorrente dei vari partiti si chiudevano in una stanza, senza streaming, si pesavano e si spartivano i seggi, non erano poi così illogici. “No, a quello non si arriverà mai”, giurano anche i meno fanatici dell’ortodossia. “Ma è indubbio che qualcosa si dovrà cambiare, con intelligenza”. E ci sarà chi lo chiamerà tradimenti, chi invece pragmatismo. E forse sarà invece semplice istinto di sopravvivenza: del Movimento, certo, e magari anche delle cadreghe in Parlamento.

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