Beppe Grillo (foto LaPresse)

Vedi all'opera i liberi grillini e ti viene da elogiare il conflitto d'interessi

Guido Vitiello

Alla fine, è meglio fidarsi solo di chi ha qualcosa da perdere

“Libertà è solo un altro modo per dire che non hai più nulla da perdere”, diceva una vecchia canzone di Kris Kristofferson, ed è possibile che sia una grande verità esistenziale; ma quando si tratta di politica e di arte del governo, la prudenza mi suggerisce di preferire all’autorità di un cantante country texano quella di un gesuita spagnolo del Seicento. “Non mescolarsi con chi non ha nulla da perdere”, ammoniva Baltasar Gracián in un aforisma dell’“Oráculo manual” (1647), e chiosava così: “Sarebbe infatti misurarsi in lotta inuguale. L’avversario si fa avanti baldanzoso, perché ha perduto persino il pudore; ha dato fondo a ogni cosa e non ha più niente da perdere: così si butta a corpo perduto in qualunque assurdità”. I proletari al tempo di Marx ed Engels avevano almeno da perdere le loro catene; ma già Hitler poteva annunciare: “E’ facile per noi prendere decisioni: non abbiamo nulla da perdere, tutto da guadagnare” – e pochi giorni dopo invadere la Polonia.

 

Questo ping-pong di citazioni attraverso i secoli e i continenti potrebbe sembrare un passatempo da sfaccendati, se non fosse che sul privilegio del non aver nulla da perdere si fonda una buona parte della retorica grillina. Basta frugare anche grossolanamente nel blog del movimento-azienda, tra i post del capocomico, gli interventi della compagnia di giro e la miriade di commenti dei militanti o dei simpatizzanti, e si è stupiti dal constatare che quella formula ritorna non decine, ma diverse migliaia di volte. Una di queste, forse la più famosa, è del 27 marzo 2013, il giorno della flagellazione di Pier Luigi Bersani in streaming. Le nuove generazioni, scriveva Grillo, vi manderanno a casa con le buone o con le cattive perché “hanno ricevuto da voi solo promesse e sberleffi, non hanno nulla da perdere, non hanno un lavoro, né una casa, non avranno mai una pensione e non possono neppure immaginare di farsi una famiglia. Vi restituiranno tutto con gli interessi”.

 

 

Non sarà del tutto vero per le nuove generazioni, ma è un ritratto piuttosto realistico della classe dirigente del M5s: gente che senza il movimento non avrebbe combinato granché, né in politica né altrove, e che si ritrova chi parlamentare, chi sindaco di una grande città, chi candidato premier. Una pagina di Hannah Arendt sui militanti dei movimenti totalitari, citata da Giuliano da Empoli in “La rabbia e l’algoritmo”, sembra valere anche per i grillini: “Il fatto che la loro vita, prima della carriera politica, sia stata un fallimento veniva ingenuamente invocato contro di loro dai leader più rispettabili dei vecchi partiti; e invece era il fattore determinante del loro successo presso le masse”. Ecco finalmente un gruppo di volenterosi che non ha rendite di posizione da difendere, favori da restituire, ricatti a cui piegarsi, fardelli da cui liberarsi, interessi di cui tener conto, patrimoni da accudire; ecco un’alleanza di uomini liberi pronti a dedicarsi anima e corpo alla politica. Eppure, per dirla in un paradosso secentista, nulla è più minaccioso di questa libertà, quando si accede al governo. Chi non ha nulla da perdere “si butta a corpo perduto in qualunque assurdità”, diceva Gracián. E’ pronto a vivere il suo quarto d’ora, o quarto di secolo, di celebrità. Può sfasciare i conti pubblici, giocare partite azzardate in politica estera, spacciare stravaganze antiscientifiche letali, il tutto con un fremito di grandeur; perché, male che vada, il suo nome finirà in un libro di storia anziché nel registro delle condoglianze della sua portineria, dove i suoi talenti lo avrebbero destinato.

Date retta ai gesuiti, possiamo fidarci solo di chi ha qualcosa da perdere: è proprio quel qualcosa a tenerlo ancorato alla realtà. E un nuovo Baltasar Gracián potrebbe scrivere un trattatello ingegnoso e arguto, dal titolo: “Elogio del conflicto de interés”.

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