Ferruccio De Bortoli (foto LaPresse)

Un paese ripiegato, che bada alle intercettazioni e non alla sostanza

Redazione

De Bortoli dice che non ci sono poteri forti, ma nessuno se ne cura

Professor Cassese, l’Istat ha fotografato, nei giorni scorsi, un’Italia immobile, cristallizzata. Vorrei parlare con lei di quello che una volta si sarebbe detto lo “spirito pubblico”, che l’Istat non ha potuto registrare.

Bene, parliamo di quel che accade nello spazio pubblico, non in termini astratti, bensì partendo da evidenze empiriche, prendendo le mosse da segnali concreti.

 

Cominciamo, tuttavia, da una valutazione d’insieme.

L’Istat ha presentato un paese che cammina, mentre gli altri paesi europei corrono. A me l’Italia pare oggi ripiegata su se stessa e distratta dai veri problemi. Se fosse un corridore, si direbbe che è stanco e deconcentrato.

 

Perché ripiegato su se stesso?

La battuta d’arresto del referendum ha avuto il suo risultato, quello di chiudere il quasi trentennio di “una Repubblica da riformare”. Ora la sfiducia nelle istituzioni è aumentata: sappiamo che funzionano a scartamento ridotto e temiamo che non si possano più modificare.

 

Perché distratta dai veri problemi?

 

Qui la risposta è più difficile, perché riguarda il rapporto tra opinione pubblica, media e azione di governo. Facciamo un esempio. Uno del maggiori giornalisti, Ferruccio de Bortoli, scrive un libro su più di quarant’anni di esperienza. Nel libro vi sono tre giudizi importanti: “I poteri forti del Paese hanno un corpo gracile” (p. 100); “il paese ha avuto solo raramente poteri forti” (p. 68); “i poteri forti non esistono più. Ne avremmo bisogno” (p. 102). I mezzi di informazione e l’opinione pubblica, invece di soffermarsi su questi giudizi, che costituiscono il messaggio del libro e la sua ragion d’essere, e dovrebbero preoccupare i lettori, pescano una frase riferita a un colloquio di due anni prima”. Un colloquio in cui si chiedeva di “valutare una possibile acquisizione” di una banca da parte di un’altra banca, frase restata senza un sèguito concreto, e vi costruiscono una discussione. Mi chiedo: che cosa è più importante, quale dei due fatti dovrebbe preoccupare di più? Mi chiedo ancora: perché De Bortoli, che ha diretto alcuni dei maggiori giornali italiani, ha scritto quel libro, per richiamare l’attenzione sulla debolezza del potere pubblico in Italia, oppure per riferire di passaggio il contenuto di un colloquio tra un ministro e un banchiere? O voleva per caso dire che i ministri contano così poco in Italia che, se chiedono a un banchiere di “valutare l’opportunità” di una acquisizione, il banchiere può agevolmente e rapidamente decidere di “lasciar perdere”?

 

Perché ritiene tanto importante questo indizio?

 

Perché è un indizio di una realtà fatta di notizie che portano l’attenzione dell’opinione pubblica su altri problemi, che potrebbero anche essere importanti se fossero forniti con precisione tutti gli elementi di contesto. Le faccio un altro esempio: un settimanale ha intitolato un servizio “l’inchiesta che fa tremare il Consiglio di Stato”. Se si comincia a leggere l’articolo, si scopre che si riferisce di una intercettazione in cui gli intercettati avevano avuto una “sentenza negativa”, avevano “preso un altro bidone”. Il Consiglio di Stato deve tremare o rallegrarsi della sua severità?

 

E delle intercettazioni che pensa?

 

Quelle sono la fonte prima dei pettegolezzi che distolgono dai veri problemi, hanno la funzione di “oppio del popolo”. Dovremmo interrogarci su tanti altri e veri problemi: in che condizioni è la scuola? come è gestita la sanità? come procede la pubblica amministrazione e quali danni si stanno facendo sistemando in ruolo nuovamente migliaia di precari senza concorso? che si fa per difendere l’industria italiana dalle “scorrerie”, senza tuttavia tradire il nostro impegno europeo? come impedire che riprendano quota i vecchi vizi, alimentati dai sindacati? le diseguaglianze crescenti sono quelle di reddito (per cui conta quello che hai) oppure invece quelle di opportunità (per cui conta quello che puoi)? perché perdono quota i punti di riferimento, le autorità morali, quelle che hanno la capacità di parlare al paese, come, ad esempio, il Presidente della Repubblica? Perché va crescendo tanta acredine nei rapporti tra le forze politiche?

 

In sostanza, lei pensa che si va allargando la distanza tra i fatti e il racconto dei fatti.

 

Sì, al punto tale che qualcuno è giunto a ipotizzare che un governo che volesse gestire il potere indisturbato dovrebbe inventarsi ogni settimana qualche scandalo, al quale tutti possano correre dietro. Così dietro le quinte si può lavorare tranquillamente, mentre sul palcoscenico si azzuffano.

 

Non dirà sul serio.

 

Non credo alla fantapolitica, quindi neanche io credo a questa prospettiva estrema. Ma anche chi governa ha diritto di sperare in qualche “momento di felicità”, come quelli che Walter Veltroni, cronista e poeta, muovendosi tra i sentimenti, è riuscito a dipingere con efficacia nel suo ultimo film. Per terminare con una nota positiva, le voglio leggere una lettera di Carlo Cattaneo, del 1847, al viceconsole inglese di Milano: “La cultura e la felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della politica quanto, dall’azione perenne di certi principi che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore di instituzioni”, quelli che “sono poco visibili, non scritti, son tramandati per consuetudine, cristallizzati in forma di mentalità diffusa”. In Italia, abbiamo un passato che rimane presente, la disseminazione urbana (ancora una volta Cattaneo: “La città come principio ideale delle storie italiane”; insomma, l’Italia delle cento città, Braudel, e l’“insigne faiblesse”), il surviving without governing. Consiglio di leggere Piero Bevilacqua, Felicità d’Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo, Laterza, 2018 per “tirare su il morale”.