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I campioni del processo mediatico sono i veri nemici di una giustizia giusta

Claudio Cerasa

Diceva Falcone che la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità ma è l’anticamera del khomeinismo. Aveva ragione. Perché oggi il Foglio vi regala un bavaglio anti gogna

Nell’ultima settimana, complice l’incredibile episodio di una telefonata penalmente irrilevante pubblicata da un giornale in modo probabilmente illegale nonostante nessuno (nessuno) ne abbia autorizzato la trascrizione, il tema del rapporto tra procure, politica e giornali è tornato a essere di grande attualità e molti osservatori, anche con sensibilità diverse, hanno riconosciuto che sì, in Italia, benvenuti, esiste un grave problema legato alle fughe di notizie dalle procure che alimentano un circo Barnum chiamato processo mediatico – all’interno del quale le vite degli altri possono essere spiattellate sulle prime pagine dei giornali senza una ragione che sia diversa dal voler sputtanare il prossimo. La diagnosi sul cortocircuito mediatico giudiziario ormai è condivisa anche da molti giornali che in passato hanno alimentato a testa bassa lo stesso cortocircuito contro il quale oggi si scandalizzano. Ma più che fare ironia sui velinari delle procure che oggi si indignano per le veline delle procure che le procure passano ad altri giornali (avremmo almeno dieci domande da fare, ma non importa) vale la pena spendere alcune righe per affrontare un tema del tutto ignorato in questi giorni nonostante l’orrenda presenza sulla scena di monsieur le cirque médiatique. Un tema che in realtà corrisponde a una domanda, solo una e non dieci: perché i giornali italiani, se davvero vogliono combattere l’orrore della gogna giudiziaria, non la smettono di alimentare il circo mediatico? 

Questo giornale – come avrete visto e come è testimoniato dalla nostra copertina speciale che avvolge il Foglio di oggi – ha proposto una cosa molto semplice e ha suggerito agli altri giornali di combattere il circo mediatico smettendola di pubblicare intercettazioni quantomeno fino al dibattimento e smettendola così soprattutto di trasformare i giornali nella buca delle lettere delle procure.

 

Le ragioni per cui molti giornali hanno risposto di no al Foglio (Corriere, Repubblica, ovviamente il Fatto) sono tante e sono le più variegate. C’è chi ha fatto della gogna una propria linea editoriale e ovviamente sospendere la gogna equivarrebbe a sospendere le pubblicazioni. C’è chi in passato ha fatto del processo mediatico un proprio tratto distintivo e ovviamente sottrarsi dal gioco del circo mediatico sarebbe complicato e porterebbe a disorientare alcuni lettori cresciuti con l’idea che fare giornalismo significhi pubblicare tutto ciò che arriva dai piccioni delle procure. Ci sono tante ragioni, poco nobili a nostro modo di vedere. Ma sotto sotto, se vogliamo proprio sforzarci di non vomitare quando parliamo di gogna, c’è una ragione che potrebbe essere considerata a prima vista (solo a prima vista) sincera e significativa quando si cerca di capire perché nessun giornale (tranne quello che leggete e pochi altri) vuole davvero combattere il circo mediatico. Quella ragione è sintetizzabile con un concetto assai diffuso nella nostra opinione pubblica. Suona più o meno così: dato che la giustizia non funziona, vale la pena accorciare i tempi del processo e celebrare sui giornali uno speciale e barbaro processo sommario per evitare che i possibili colpevoli possano restare degli impuniti.

 

E’ la perfetta e forse inconsapevole declinazione di uno dei capisaldi del davighismo: non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti.

Piero Tony, mitico magistrato di sinistra che ha scelto di andare in pensione con qualche anno di anticipo anche per combattere gli orrori del circo mediatico, definisce così il processo combattuto a colpi di veline delle procure sbattute sui giornali: una nuova misura cautelare diventata ormai una costola del processo tradizionale e trasformata da alcuni magistrati e da alcuni giornalisti complici in una sorta di giudizio di primo grado anticipato. A voler seguire questo filo logico si potrebbe pensare che in fondo, in un sistema giudiziario “così ingiusto”, sia comprensibile che i magistrati, o almeno alcuni di essi, considerino, insieme con i loro fedeli cronisti al seguito, il processo mediatico l’unica vera sanzione contro i-potenti-che-la-fanno-sempre-franca. “La crisi della giustizia italiana, la sua lentezza, la capacità di ottenere la prescrizione degli imputati eccellenti – ha ricordato venerdì scorso Antonio Polito sul Corriere – rendono sempre più rare le sentenze, specialmente nel campo delle inchieste sui cosiddetti colletti bianchi. Gli italiani hanno capito che difficilmente, e chissà quando, il processo farà giustizia e la pena sarà certa. Dunque accettano, e purtroppo talvolta sollecitano, una giustizia più sommaria”.

 

La ragione per cui molti giornali si rifiutano di combattere davvero il processo mediatico è dunque anche questa. Nessuno si fida della giustizia, e tutti vogliono farsi giustizia da soli, a colpi di fantastiche condanne morali. E le condanne morali maturano all’interno di un codice di procedura penale straordinario utilizzato dal circo mediatico in modo ormai lineare: se sei un potente intercettato, sei automaticamente un potente impunito; se sei un politico indagato, sei automaticamente un politico che prova a farla franca; se sei un politico citato da un indagato intercettato, sei automaticamente un politico che “spunta” nelle indagini e che in qualche modo è “coinvolto” nel processo mediatico e che merita di essere condannato. Semplice, no?

 

“Io – disse Giovanni Falcone nel 1991, in un’audizione a Palazzo dei Marescialli avvenuta in seguito alla scelta (criticata) di Falcone di non aver sviluppato le indagini su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia – posso anche sbagliare, ma sono del parere che nei fatti, nel momento in cui si avanza un’accusa gravissima riguardante personaggi di un certo spessore o del mondo imprenditoriale e tutto quello che si vuole… o hai elementi concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia del nostro paese”.

 

La lezione di Falcone oggi è ancora viva e ci dice una cosa semplice: i peggiori amici della giustizia sono coloro che alimentano il circo mediatico e che non cercano giustizia, ma vogliono solo farsi giustizia. I venticinque anni dalla strage di Capaci, e dalla morte di Giovanni Falcone, abbiamo scelto di ricordarli così. Con un giornale speciale dedicato a un’idea di un giudice che ha speso una vita a combattere la mafia anche puntando e scommettendo su un principio fondamentale oggi calpestato da molti ipocriti che lo ricorderanno nei prossimi giorni: “La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità: la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo”.

 

Vale per i giudici. Dovrebbe valere anche per noi giornalisti. Ne vogliamo parlare o no?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.