Emmanuel Macron e Angela Merkel (foto LaPresse)

Qualcosa è successo, e non una catastrofe

Giuliano Ferrara

Macron può fallire, ma è facile che duri dieci anni. La Mutti tedesca sta bene, l’euro piacicchia pure. Gli aspiranti alla demagogia possono trasferirsi in Michigan per un periodo abbastanza lungo. L’Italia diffidi di se stessa, ma ha il suo Stellone

Qualcosa è successo. Macron può sempre fallire, il potere alla fine fallisce, anche quello che entra nella leggenda. Ma gli ultimi due presidenti della Repubblica in Francia hanno fallito subito, senza por tempo in mezzo. Stavolta, date le premesse, nessuno può escludere un ciclo di dieci anni di stabilità e di movimento. Intanto è fallita l’azienda familiare più prosperosa di sfruttamento della collera nazionalsocialisteggiante antieuropea, il lepenismo. Anche la virtuale rielezione di Angela Merkel per un quarto mandato è interessante, dopo i dati delle elezioni in Renania-Palatinato che smentiscono come al solito il cretinismo andante di certe osservazioni giornalistiche affrettate e fervorose, e perfino i saggi critici, alcuni dei quali ben costruiti, del numero speciale del Mulino dedicato alla Germania qualche mese fa.

 

La rielezione della Mutti è virtuale, ma non è virtuale la marginalità protestataria della AfD (il gruppazzo collerico e liberista estremo, ma grottescamente autarchico, che fatica a imporsi e non si sa se entrerà e come nel Bundestag). Il combinato disposto (formula di successo in bocca ai costituzionalisti e ai burocrati del latinorum) di un presidente francese riformatore, che si avvia comunque a costituire se non padroneggiare una maggioranza presidenziale diretta o di coalizione in giugno con le elezioni politiche, e di un cancelliere della Repubblica di Berlino duttile, autorevole, esperto, è una buona premessa. L’euro piacicchia nonostante tutto. La ripresa c’è anche se come ha detto Bernard Arnault “gli alberi crescono ma non arrivano mai al cielo”. Penso che il nostro amico Tremonti, e con lui tanti aspiranti alla demagogia, possano mettersi l’animo in pace per un periodo abbastanza lungo o trasferirsi nel Michigan, e solo lì. Ma non si sa, certo, una nuova crisi è sempre possibile, però comincerei ad andarci piano con il grande rimpiazzo islamico e altri toni apocalittici. L’Europa è capace di sopportare senza scosse telluriche parecchie cosette anche non piacevoli, e tra queste un’immigrazione che deve tornare a essere controllata, non esorcizzata con i toni dei fanatici di Coblenza, che per adesso hanno perso la partita anche a nome del comico ignaro di Genova e dei suoi sodali casaleggiani.

 

Alles in Ordnung? No. Ma qualcosa è successo, e se il riavvio di un equilibrio europeo senza la bizzarria dell’anglosfera alla deriva negli oceani è e resta difficile, è anche per lo meno possibile, con il suo contorno di ragionevolezza, di avanzamento della società aperta, di difesa di alcuni caratteri pertinenti della democrazia moderna. E mi spiace per il caro amico Putin, che giochicchia pericolosamente con le cyberguerre e usa altri metodi più ruvidi per impicciarsi, ma ha vinto le elezioni, e fino a un certo punto, solo in una Casa Bianca mai così ridicola. La grande debolezza del momento è che non sappiamo bene dove andare, come ridurre il sentimento dello sviluppo sociale e territoriale ineguale, dico sentimento perché i dati in merito sono piuttosto contraddittori, come battere le sacche minoritarie di povertà residua, promuovere e riformare il commercio, tenere il fronte del lavoro qualificato e della formazione professionale, tutelare gli esclusi, dare un’anima politica alle istituzioni di Bruxelles e di Francoforte, difendere e ristrutturare l’omogeneità monetaria dell’Eurogruppo partendo dagli insuccessi, dagli squilibri e anche dai successi indubbi della moneta unica, tra i quali paradossalmente perfino la Grecia macroniana di Alexis Tsipras. Quanto alla ricerca del fine, e del senso per non esagerare in ansia di felicità, il precetto di una società sempre più senza chiesa e senza Cristo e spazio pubblico del religioso è che ognuno farà per sé, gestirà i suoi diritti, organizzerà la sua singolarità o la sua famiglia, e che si tenga a bada la tremenda frontiera dell’eugenetica contemporanea per quanto possibile e auspicabile, ma senza bigottismi superati dalla Renuntiatio profetica di Benedetto XVI, e senza la monotona ripetitività dei reduci impotenti. Le grandi guerre culturali, e prima fra tutte quella dell’identità, compreso il problema tragico dell’islam e del terrorismo, sono tutt’altro che finite, ma vanno combattute alla larga da semplificatori, fanatici e demagoghi che cercano di profittarne senza averne i mezzi intellettuali e morali. Qualcosa è successo, e non della peggior specie.

 

La formidabile sequenza di interviste al direttore di questo giornale, Renzi e Berlusconi, che dà il tono alla percezione politica di queste novità, in certo senso rassicura e invita all’ottimismo, che è il nostro comune manifesto. Ma il blocco di sistema imposto dalla sconfitta dei novatori nel referendum sulla riforma costituzionale non promette bene per l’Italia. Torneremo a essere quello che non siamo stati negli ultimi vent’anni, è probabile. Un regime. Con alternanze difficili da realizzare e un uso della proporzionale, con finzione maggioritaria, esposto a molti rischi, data la volatilità del voto nazionale, soprattutto se paragonata al massiccio comportamento stabilizzante dell’elettore tedesco, e dei suoi apparentemente immarcescibili Volksparteien. Siamo un paese che manca di disciplina emotiva e intellettuale, a volte di semplice ragionevolezza, e la sfida dell’educazione, della formazione e della cultura, è di quelle che fanno accapponare la pelle, viste le fragilità di una parte delle giovani generazioni di fronte alla dimensione del numerico e del digitale, avvertiti come libertà di smanettare a vanvera, gioiosamente o tristemente, dipende. Però siamo furbissimi e pieni di risorse, e cari alla Fortuna, ragione per la quale dobbiamo disperare di noi stessi ma non dello Stellone che ci protegge da millenni, e forse indurrà i millennials a superare antiche pigrizie e scarsa voglia di lavorare, di fare, di emulare, di competere, di proteggere, di vivere i diritti insieme ai doveri.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.