Roberto Speranza, Pierluigi Bersani (foto LaPresse)

Il suicidio delle classi dirigenti si spiega con una parola, masochismo

Guido Vitiello

Da Bersani a Berdini fino a Matteo Renzi

"Io fui Paolo già. Troppo mi scuote il nome di Virginia”; ma l’incredibile caso Raggi-Berdini suscita reminiscenze letterarie ben più cupe di questi versi di Gozzano o del romanzo di Saint-Pierre che li ispirò. La tortuosa sequela di umiliazioni a cui si è sottoposto liberamente l’assessore – le accuse lanciate alla sovrana credendosi al riparo dai suoi occhi (un caso di scuola di “atto mancato”); l’autodenigrazione pubblica del giorno dopo (“Sono un coglione, questa è la verità”); il risentimento verso il cronista che aveva spezzato il patto di vassallaggio; l’attesa tormentosa di un responso o di un perdono – tutto questo ha una sola pietra di paragone nella storia della letteratura, ed è la “Venere in pelliccia” di Sacher-Masoch. Se scorriamo le clausole del contratto di servitù amorosa con cui Severin s’incatena a Wanda “fino al momento in cui essa non gli renderà la libertà”, basterà sostituire ai loro nomi quelli dell’assessore e della sindaca per ottenere la chiave delle “dimissioni respinte con riserva”. Guai ad archiviare quella formula bizzarra della Raggi nel ricco dossier del dilettantismo grillino! E’ in ballo una questione capitale, la questione del suicidio delle classi dirigenti, per la quale Vincenzo De Luca, intervenendo alla direzione del Pd, ha evocato la parola decisiva: masochismo. Definizione sottile, che non va confusa con una lunga tradizione di ironie indulgenti e sotto sotto orgogliose sull’abitudine della sinistra alla sconfitta.

 
La legislatura si è inaugurata con uno spettacolo grandioso, in cui quello che Theodor Reik chiamava “l’elemento teatrale del masochismo” ha potuto manifestarsi in tutto il suo oscuro splendore: il martirio in streaming di Bersani sotto la ferula di Crimi e di Lombardi. Ma era solo il primo dei molti rituali di degradazione in cartellone per la stagione politica. Abbiamo dovuto vedere conduttori di talk-show piegati ai capricci di Rocco Casalino. Intervistatori di lungo corso in soggezione davanti ai dioscuri vaniloquenti Di Maio e Di Battista. Giuristi che si abbassavano a opinare pacatamente sul delirio da ricovero coatto dei contratti con la Casaleggio Associati. Leninisti immaginari in marcia con le moltitudini grilline, come pifferi della montagna che andarono per suonare e furono suonati. Venerati maestri tirati sul carro del capocomico e scaricati come vecchiacci molesti appena non servivano più. Abbiamo dovuto vedere l’intervista di Mentana alla Venere in pelliccia.


Ma il masochismo del Pd è un caso psicopolitico più intricato, e non va scambiato per pavidità o rassegnazione alla sconfitta. Nulla lo illumina meglio di questa pagina di René Girard, che pare il ritratto di Bersani: “Il cosiddetto masochista somiglia a un generale che abbia già perduto una battaglia e si senta tanto umiliato da volersi ormai impegnare soltanto a vendicare questa sconfitta; nelle sue campagne ulteriori, egli cercherà dunque di riprodurre le stesse condizioni o condizioni ancora più sfavorevoli. Egli non vuole perdere di nuovo, ma vincere la sola battaglia che valga veramente la pena di essere vinta, quella che ha già perduto. Fa di tutto, dunque, per ritrovare i partner e riprodurre le circostanze della sconfitta precedente (…) Non sarà dunque una vittoria, probabilmente, ad essere registrata di seguito alla prima sconfitta, ma sempre nuove sconfitte”. E’ follia, ma c’è del metodo: il metodo dietro le contorsioni della minoranza Pd dal 2013 a oggi. Voglia il cielo che non diventi anche il metodo di Renzi, dopo la batosta del 4 dicembre.