Nigel Farage e Beppe Grillo (foto LaPresse)

Uno vale Grillo

Salvatore Merlo

Bersani, Di Pietro e adesso anche Verhofstadt stanno lì a dimostrare che con l’M5s non si fa politica. Lui solo ha il privilegio di non dover essere coerente. Chi ha provato a utilizzarlo è finito male.

Roma. E chissà come andrà a finire con Nigel Farage, che a quanto pare riprenderà il M5s nel gruppo Ukip al Parlamento europeo, “ma solo dopo aver rinegoziato la loro posizione”, perché finora tutti i politici tradizionali che si sono cimentati nella trattativa politica con Beppe Grillo pensando di saperla più lunga di lui, o persino di poterlo utilizzare per i propri scopi, sono rimasti stritolati. In principio fu Pier Luigi Bersani, il segretario del Pd che, travolto dagli appelli su Repubblica e sui giornali della sinistra, voleva stanare Grillo, dimostrare che era il M5s a rifiutare il "governo del cambiamento", il governo più bello del mondo, voleva svelarne le contraddizioni. Ma tutti ricordano come andò a finire, con Bersani consegnato a una penosa umiliazione in diretta streaming perché ancora non sapeva, e non poteva immaginare, d’avere a che fare con un uomo anguilla, forse l’unico politico che ha davvero il privilegio di non dover essere coerente, che non paga dazio di fronte al suo mondo di arrabbiati, l’unico che può felicemente ignorare persino le regole della consequenzialità logica e i loro gretti inventari. Infatti se Grillo pasticcia a Bruxelles e non riesce a far entrare il M5s nel gruppo dei liberali, gli basta urlare “complotto”, “è l’establishment”, dice “vaffanculo” e questo spiega ogni cosa.

Persino Antonio Di Pietro pensava di poter usare Grillo per insaccare la rabbia nella sua sporta dei voti, dunque andava alle manifestazioni del M5s, coppola e sigaro toscano in bocca. Ed era un modo, vista l’aria che già si respirava, di prendere in piena faccia il vento, cercare di accoglierlo e diventarne parte stessa. Di Pietro credeva di poter essere lui il paladino della nuova Mani pulite, vent’anni dopo, senza capire che nel frattempo lui era diventato casta, simpatico ma impresentabile: credeva che le cinque stelle fossero la sua nuova linfa, e invece Grillo l’ha scaricato e svuotato di voti e di senso.

 

E anche Guy Verhofstadt, il presidente dei liberali al Parlamento europeo, pensava di aver fatto la mossa del cavallo, come Bersani e come Di Pietro, poveretto. Con il populista Grillo, ammesso nelle file del suo Alde, Verhofstadt era sicuro di poter far saltare il banco del Ppe e del Pse, credeva di poter conquistare per sé la presidenza del Parlamento europeo. E invece Verhofstadt non solo ha perso la partita di Bruxelles, come Bersani perse il treno del governo e Di Pietro quello della sopravvivenza. Verhofstadt ha perso pure per strada il suo partito, che profondamente immerso nella cultura della democrazia rappresentativa (non diretta), in quel solido mondo composto di tessere, correnti, dibattiti, contrasti, e cultura politica, ha bollato come inaccettabile l’alleanza con un partito antieuropeo. E insomma l’Alde ha respinto l’alleanza con Grillo e smentito il suo leader per quelle stesse ragioni di coerenza che invece per Grillo, per lui che organizza e dirige la rabbia al di fuori di ogni valida e consapevole sintassi assembleare, per lui che avrebbe potuto allearsi da eurofobico con un partito romanticamente europeista, non esistono.

E il suo non è il coraggio o il cinismo della contraddizione, che rientra nel codice della politica, una grammatica che Bersani, come Di Pietro e come Verhofstadt, avrebbero compreso e certo governato. Al contrario per Grillo tutto è reversibile, rovesciabile, perché lui e lui solo ha il privilegio di non dover rispondere a nessuno, di non dover spiegare niente a nessuno: non ai parlamentari del Movimento, che vivono in un’atmosfera di segreta coercizione, non a quei militanti che a quanto pare sul blog votano come vuole lui, e all’ora che stabilisce lui, e il quesito plebiscitario che formula lui. Una sorta di controrealtà, di realtà imposta, nella quale Grillo fa ballare tutti al ritmo del suo metabolismo accelerato, tra affermazioni gratuite, indicazioni sbagliate, invenzioni del bersaglio polemico, che ottundono ogni giudizio e che rivelano il Movimento cinque stelle per quello che forse è, cioè un fenomeno di fine epoca, alimentato dalla rabbia di un’Italia che non sopporta più né Marx né Machiavelli, che sono il pensiero e la logica stessa della politica.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.