(foto LaPresse)

M5s senza benzina

Francesco Ramella

Punto primo: più tasse sul carburante. Il programma grillino parte con la marcia sbagliata

Roma. E’ iniziata dall’energia la discussione del programma del M5s per le prossime elezioni politiche. Il primo quesito posto agli iscritti – e approvato dalla base con il 96,7 per cento dei consensi – riguarda la mobilità: “Sei d’accordo con lo sviluppo di politiche che scoraggino l’uso della benzina e del petrolio a favore della mobilità elettrica?”. Politiche che, a giudizio dell’autore del documento, il chimico-fisico Valerio Rossi Albertini, non potrebbero più essere procrastinate pena la progressiva degenerazione degli impatti ambientali. La disamina pentastellata si avvia con i cambiamenti climatici, la siccità, i fenomeni meteorologici estremi e il “2016 anno più caldo della storia”. Ora, stando all’Ipcc, l’organismo delle Nazioni unite che si occupa del fenomeno, non vi è alcuna solida evidenza che la frequenza degli eventi estremi sia finora aumentata. Sappiamo invece con certezza che negli ultimi cento anni il numero di vittime di tali eventi si è ridotta drasticamente: la crescita della ricchezza e le migliori conoscenze scientifiche hanno consentito di minimizzare le ricadute di uragani e alluvioni. Viviamo in un mondo molto più sicuro di ieri: abbiamo imparato a proteggerci dal clima.

Non meno tendenzioso è il riferimento agli “oltre 50 mila morti” causati dalle polveri sottili. Nessuno, oggi, neppure nelle giornate che fanno registrare i più alti livelli di inquinamento, muore di smog. La qualità dell’aria è in costante miglioramento da decenni e nella inquinata Pianura Padana la speranza di vita è più alta della media italiana ed europea. A Milano dal 1980 a oggi la vita media si è allungata di otto anni ed è superiore, ad esempio, a quella di Genova dove pure la concentrazione di polveri sottili è la metà di quella del capoluogo lombardo. Una diagnosi, dunque, quella sottoposta all’attenzione dei grillini perché possano deliberare, per nulla convincente. E le cose non vanno meglio quando si passa alla terapia. Al contrario di quanto sostiene Rossi Albertini, non è vero che in Italia sia stata fino a oggi attuata “una politica di incentivi delle fonti tradizionali”. Non siamo il Venezuela dove la benzina veniva pressoché regalata – prezzo alla pompa di 2 centesimi di euro per litro – ma neppure gli Stati Uniti dove il prelievo fiscale si attesta intorno ai 7 centesimi al litro. Come (dovrebbe essere) noto a tutti, l’accisa nel nostro paese è pari al doppio del prezzo industriale: il prelievo è sette volte superiore a quello d’oltreoceano. Ogni tre euro spesi dal distributore, solo uno va nelle tasche delle compagnie petrolifere. Gli altri due finiscono allo stato insieme agli altri tributi sull’Auto; meno della metà delle risorse incassate vengono utilizzate per la realizzazione di nuove opere stradali e per la gestione e manutenzione della rete esistente.

L’utilizzo di veicoli con motore a combustione interna risulta quindi essere già oggi disincentivato a sufficienza; di più, come confermato da una recente ricerca del Fondo monetario internazionale, l’attuale livello di prelievo fiscale in Italia e negli altri paesi europei è mediamente più elevato di quello necessario per compensare gli effetti negativi – inquinamento, congestione, sicurezza – correlati alla mobilità su gomma. Un incremento della tassazione appare dunque immotivato: sarebbe al contrario equo ed efficiente ridurla e, al contempo, estendere il ricorso a sistemi di pedaggio laddove più elevati sono i livelli di congestione, che rappresenta l’esternalità più rilevante del trasporto su strada. Al “fallimento del mercato” si è già posto rimedio. Altre forme di regolamentazione o sussidio non sono auspicabili. Una volta introdotto il segnale di prezzo – la carbon tax nel caso delle emissioni di Co2 – la scelta di quali strade perseguire per ridurre le emissioni dovrebbe essere lasciata ai soggetti che operano nel mercato, produttori e consumatori. Non allo stato che, qui come altrove, di norma si rivela un cattivo imprenditore. Nel caso, proposto come modello ai militanti del M5s, delle incentivazioni delle auto elettriche in Norvegia il costo sostenuto per ogni tonnellata di Co2 non emessa è risultato pari a circa 13.500 euro. Questo a fronte di un beneficio, corrispondente al danno evitato, che può essere stimato pari a qualche decina di euro. Non esattamente quello che si direbbe un investimento oculato anche qualora si considerino i possibili benefici nel lungo periodo conseguibili grazie alle economie di scala e alla ulteriore evoluzione tecnologica.