Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Why Economist is unfit to read Italy

Claudio Cerasa

A chi conviene difendere lo status quo? Dall’Economist a Md fino alla Cgil. Così, a un passo dal referendum, il Pd scopre che i nemici del Cav. oggi sono i nemici del Pd. Motivi? La risposta c’è. Indagine su una rivoluzione culturale. 

Il referendum, le sovrapposizioni, le battaglie in comune, i paradossi, i capovolgimenti e poi ovviamente l’Economist. Sandro Bonaceto è il direttore generale di Confindustria Firenze. Come molti a Firenze, conosce da anni Renzi, non ha mai votato Berlusconi e oggi, come tutta Confindustria, è impegnato a raccontare agli iscritti del sindacato degli industriali i pro e i contro della riforma costituzionale. Ieri Confindustria Firenze ha organizzato un equilibrato incontro a porte chiuse con Luciano Violante, Marcello Pera e Ugo De Siervo e qualche minuto prima del seminario, di fronte a un caffè macchiato e un cornetto caldo alla crema preso rapidamente con chi scrive a piazza della Signoria, Bonaceto, con un sorriso, ha usato una frase che negli ultimi tempi, con tono scherzoso, deve essere uscita fuori dalla bocca di molti elettori di sinistra orientati a votare Sì il 4 dicembre al referendum costituzionale: “Silvio, scusaci, ora siamo pronti!”. E’ una battuta che esce dalla bocca di un uomo di sinistra, in un mix tra ironia e confessione, ma è un concetto che sintetizza bene un’impressione chiara e clamorosa emersa in questa campagna elettorale (e che in un certo senso, seppure indirettamente, è alla base del No alla riforma costituzionale messo in pagina ieri dall’Economist, vedremo perché). Un’impressione che si lega a molti temi chiave di questa campagna elettorale: la solitudine di Matteo Renzi, la moltiplicazione dei populismi, la forza di un governo, la posizione contro natura di Berlusconi.

Con la sua battuta, il direttore di Confindustria Firenze dà voce a una consapevolezza diffusa che vive in una parte importante della sinistra che oggi sta scoprendo quello che mai avrebbe immaginato di scoprire: la distanza culturale che esiste tra il vecchio berlusconismo e il Pd è infinitamente minore rispetto a quella che esiste tra il Pd e i populismi che si stanno diffondendo in Italia (uno grillino, uno leghista, uno di sinistra). E’ sufficiente rileggere alcune vecchie dichiarazioni di Berlusconi del 1995, quelle che il Foglio ha maliziosamente pubblicato due giorni fa, per capire di cosa stiamo parlando. “Il sistema bicamerale comporta un inutile spreco di lavoro e lungaggini decisionali che nessuna democrazia può sopportare… L’equazione tra elezione diretta del vertice dell’esecutivo e sistema autoritario è un falso storico… Occorre una riforma nel senso della trasformazione della seconda Camera in organo rappresentativo delle autonomie locali”.

Poteva l’Economist sostenere una riforma che realizza in parte un progetto berlusconiano? Nein. Ma ci arriviamo con calma. Al contrario di quello che si potrebbe credere, per tornare al piano politico, il paradosso di oggi non è solo l’incomprensibile distanza che esiste tra Berlusconi e chi sta provando a fare quello che voleva fare lo stesso Berlusconi anni fa, ma è anche altro. E’ l’oggettiva vicinanza manifestata da un pezzo importante della sinistra (probabilmente ancora maggioritario del Pd) con una serie di punti forti del programma del Berlusconi del 1995: dal superamento del bicameralismo perfetto alla necessità di dare al presidente del Consiglio alcuni strumenti capaci di rendere la vita più facile a chi prova a governare un paese (per esempio togliere la fiducia al Senato).

Poteva l’Economist sostenere una riforma che in un certo senso realizza un progetto berlusconiano? Nein. Questa vicinanza culturale, che ciascun elettore del Pd sta sperimentando sulla propria pelle può piacere o no, costringe i sostenitori del Sì a fare i conti con un dato di realtà difficilmente contestabile e che rimette evidentemente in discussione molte delle tradizionali coordinate politiche del centrosinistra. C’entra la cultura, c’entra la politica ma c’entra anche il post referendum. Da questo punto di vista il “Silvio scusaci ora siamo pronti” sussurrato con ironia coincide con una dinamica che non è solo figlia dell’incontro avuto nel 2014 tra Renzi e Berlusconi (il patto del Nazareno ha avuto l’effetto di avvicinare il Pd agli elettori di centrodestra più di quanto Berlusconi si sia avvicinato davvero a Renzi) ma è frutto di un duro stress test che sta subendo l’elettore di sinistra in questa campagna referendaria, all’interno della quale, improvvisamente, gli storici avversari di Berlusconi stanno scoprendo di avere oggi gli stessi nemici che un tempo aveva Berlusconi: la Cgil, l’Associazione nazionale dei magistrati, Magistratura democratica, gli ambientalisti, la sinistra comunista, i partigiani della Costituzione, alcuni magistrati della procura di Palermo, lo stesso Economist. E la simpatica accozzaglia che oggi dice No alla riforma costituzionale ha un unico grande punto in comune: la difesa di un sistema istituzionale come quello attuale che premia la rappresentatività più che la governabilità e che, negando sufficienti poteri al presidente del Consiglio per governare, rende inevitabile la proliferazione dei professionisti del veto. Per verificare empiricamente la particolare condizione vissuta dall’elettore del Pd che si avvicina al referendum con l’idea di votare Sì provate a fare un piccolo esperimento: chiedete a un qualsiasi sostenitore della riforma costituzionale di area Pd se stasera a cena preferirebbe fare due chiacchiere con un elettore grillino, un elettore bersaniano, un elettore salviniano, un elettore civatiano o un elettore berlusconiano. Fatto? Bene. Si dirà: che c’entra l’Economist con tutto questo? C’entra nella misura in cui il settimanale portavoce degli interessi dei mercati non può che avere un suo interesse specifico a difendere un sistema istituzionale in cui il primato della politica è un’utopia e in cui il governo di un paese è condizionato da molti fattori esterni e non ha un vero margine d’azione. Affidiamoci ancora alle parole di Berlusconi del 1995: “All’idea di un risolutivo rafforzamento dell’esecutivo che solo dall’elezione diretta e dall’attuazione piena del principio della separazione dei poteri può venire; all’idea di un ambito proprio di competenze costituzionali del Governo, sottratto alla logica della mediazione continua e pervasiva (anche sui provvedimenti più scontati e doverosi); all’idea della costruzione di un’autonomia istituzionale dell’esecutivo e di una legittimazione propria, i nostalgici del proporzionalismo e della consociazione insorgono. Si dichiarano non protetti e chiedono garanzie”. Poteva l’Economist sostenere una riforma che in un certo senso realizza un progetto berlusconiano? Nein. 

Torniamo a Firenze. Marcello Pera, ex presidente del Senato, ex fondatore di Forza Italia, oggi impegnato a mobilitare l’elettorato di centrodestra verso il Sì alla riforma costituzionale, al termine del seminario di Firenze salta su un treno che lo riporta a Roma e ammette, conversando ancora con chi scrive, che mai nella sua vita avrebbe pensato che le sue vecchie idee, rimanendo tali, potessero essere acclamate nei circoli del Pd.

“La mia – dice con un sorriso Pera – è una condizione difficile da spiegare. Ho le stesse idee di sempre sulla riforma costituzionale, sono convinto che il presidente del Consiglio debba avere per governare maggiori garanzie rispetto a quelle che, oggi, ma in questo momento mi ritrovo circuito con affetto da parte degli elettori del Pd e mi ritrovo distante da Berlusconi che usa, per contrastare una riforma simile alla sua, parole simili a quelle che i suoi avversari utilizzavano nel 2006 per contrastare la nostra riforma costituzionale. Sono disorientato, ma felice”. Il contesto culturale che abbiamo descritto finora – Silvio, scusaci, ora siamo pronti – va tenuto in testa anche per orientarsi senza smarrirsi in quelle che saranno alcune dinamiche che si innescheranno quasi automaticamente all’indomani del voto sul referendum. Inutile girarci attorno: sia che vinca il Sì sia che vinca il No, Berlusconi e Renzi, per contrastare i populismi che potrebbero avanzare in Italia, saranno destinati a ritrovarsi a cena insieme.

E lo faranno non per inciuciare insieme ma perché è l’inerzia della politica che li spingerà verso la stessa corrente del fiume. Lo stesso Berlusconi, nella sua sconbiccherata campagna per il No, non fa altro che offrire segnali chiari sul fatto che la posizione contro natura di Forza Italia sia solo una parentesi dettata più da ragioni tattiche che ideologiche e difatti il Cavaliere non passa giorno che non mandi segnali contraddittori: cari elettori, votiamo No al referendum per cacciare il tiranno Renzi e per andare contro i poteri forti ma ricordate che Renzi è l’unico vero leader in campo in questo momento e che dopo la vittoria del No Forza Italia, che è un partito responsabile, è pronta a collaborare con quello stesso Renzi che oggi vi stiamo chiedendo di cacciare a calci nel sedere (come direbbe Fantozzi, ci si sono incrociati i diti). Cerchiamo di essere più precisi. Concretamente, dopo il referendum, le strade di Renzi e Berlusconi possono tornare a incrociarsi per diverse ragioni. La vittoria del No apre ovviamente scenari imprevedibili (l’Economist, nel suo fondo di ieri, suggerisce indirettamente la formazione di un governo tecnico in caso di sconfitta di Renzi) ma delinea due percorsi chiari in cui Pd e Forza Italia potrebbero nuovamente incontrarsi. Opzione minimale: Renzi si dimette, accetta di sostenere un governo guidato da un tecnico di sua fiducia (Padoan), resta segretario del Pd e prima di far cadere il governo scrive la legge elettorale con l’unico politico (Berlusconi) con il quale è possibile ragionare in modo strutturate per costruire un paese che sappia proteggersi dai nuovi populismi. Opzione meno minimale: Renzi si dimette, i mercati soffrono, lo spread sale, la responsabilità di lasciare il governo si fa pesante, Mario Draghi chiama, Sergio Mattarella insiste, Renzi capisce che lasciare il governo potrebbe essere un gesto rischioso per la stabilità del paese e accetta un nuovo incarico solo a condizione di poter scaricare il peso politico e gli oneri di un ennesimo e rischioso governo non solo sul Pd ma anche su Forza Italia (opzione non impossibile, come si deduce dalle parole di queste ore di Berlusconi, ma che avrebbe l’effetto di far saltare un pezzo di Forza Italia, portando il fronte movimentista del partito più vicino alla Lega e quello di governo in un’area che comprenderebbe anche i vecchi amici di Ncd e Area Popolare). In caso di vittoria del Sì, invece, lo schema non cambierebbe molto – in un’ipotetica Terza Repubblica il Pd di Renzi avrebbe una sintonia naturale più con coloro che hanno osteggiato la riforma per ragioni tattiche (Forza Italia) che con coloro che l’hanno combattuta per ragioni ideologiche (tutti gli altri) – e l’incontro tra Renzi e Berlusconi sarebbe in un certo senso inevitabile,  in un contesto che ieri il presidente del Consiglio ha descritto così nel corso di alcune conversazioni con i suoi collaboratori: “L’Italia potrebbe essere il 5 dicembre il paese più stabile d’Europa: guideremmo la discussione a Bruxelles. Qualcuno preferisce invece un debole governo tecnico per continuare a spolparsi il paese. Ormai la sfida è quella. Ce la giocheremo così”. In che senso l’incontro sarebbe inevitabile? La modifica della legge elettorale, dopo il 4 dicembre, tornerà a essere (purtroppo) argomento centrale della discussione politica e anche in caso di vittoria del Sì Renzi perfezionerà il meccanismo elettorale per evitare che si possa ripetere uno schema Torino (Appendino vittoriosa su Fassino al secondo turno con i voti del centrodestra che confluiscono sul candidato grillino non su quello democratico). La scelta potrebbe essere spontanea o indotta da una sentenza della Corte costituzionale (dopo il referendum, la Consulta si esprimerà sull’Italicum) ma in entrambi i casi la correzione proporzionale che vi sarà con ogni probabilità alla legge elettorale avverrà con un nuovo patto con Forza Italia. E se lo schema del ballottaggio dovesse essere accantonato, nella nuova legge vi sarà una clausola invisibile che suonerà più o meno così: se nella prossima legislatura nessun partito avrà la maggioranza dopo le elezioni, l’unica maggioranza possibile di governo – massima solidarietà all’Economist – dovrà essere quella formata da Partito democratico e Forza Italia. Tutto questo, ovviamente, vive nella sfera dell’indicibile di questa campagna elettorale. Non si può dire, non si può confessare, non si può ammettere ma il punto è evidente. Sull’identità del Pd, lo stress test referendario ha avuto un effetto chiaro: rimettere in discussione le vecchie coordinate della sinistra, mettere da parte alcuni tabù del passato, riavvolgere il nastro degli ultimi vent’anni di politica senza paraocchi ideologici e riconoscere che nel mondo post referendario ci saranno molte variabili ma c’è una certezza: tra un elettore berlusconiano e un elettore del Pd oggi c’è una distanza infinitamente minore rispetto a quella che si può registrare tra un elettore del Pd che voterà Sì il 4 dicembre e un elettore grillino o un elettore bersaniano. E si capisce che un giornale come l’Economist abbia difficoltà a sussurrare quello che oggi ammettono molti elettori di sinistra che il 4 dicembre voteranno Sì al referendum costituzionale: scusaci Silvio, davvero, adesso siamo pronti.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.