Massimo D'Alema (foto LaPresse)

Viaggio nel carnevale del No

Salvatore Merlo
Guidato da D’Alema e Brunetta, due leader che Renzi considera “perfetti”, il fronte del no al referendum è un serraglio pittoresco che non si trova d’accordo su nulla. Prima prova: la legge elettorale. Cronache e comiche.

Roma. E farsi una passeggiata intorno a Palazzo Chigi, nei corridoi laterali, e insomma tampinare, inseguire, interrogare e ascoltare i collaboratori del presidente del Consiglio Matteo Renzi, in queste ore significa anche raccogliere la sogghignante e ritorta soddisfazione, bullesca e un po’ beffarda, forse pericolosamente spavalda, che molti di loro manifestano, con sorrisetti e gran fregar di mani, nel veder crescere, e singolarmente avvinghiati l’uno all’altro, “i due grandi leader referendari del ‘no’”, due che “così perfetti non sarebbe stato possibile averli nemmeno se li avessero fatti scegliere a noi”.

 

E ci si riferisce ovviamente alla coppia dell’autunno composta da Renato Brunetta e da Massimo D’Alema, il baffuto e l’ipercinetico, ormai quasi diavoletti dello stesso girone infernale: tesi e prolifici, attivissimi e presentissimi, l’uno, quello di destra, impegnato a dire che “il referendum saranno le primarie di Forza Italia” – e che insomma altro che Stefano Parisi, “il leader del ‘no’ (cioè Brunetta medesimo) sarà anche il candidato premier” – e l’altro invece, quello di sinistra, che a sentir il suo sostenitore Carlo Freccero è convinto che “il referendum sarà il congresso del Pd”, e che insomma una volta vinto il “no” ci si libererà del ducetto di Firenze, e finalmente nel Pd tutto tornerà come prima.

 

Ma a far sorridere i renziani, che allo sberleffo sono portati per indole (e spesso eccedono), non è la baldanza temeraria, e non è tanto, o soltanto, questo concedersi d’intimità stravaganti tra quello che D’Alema definì “energumeno tascabile” e quello che invece Brunetta chiamava “razzista e presuntuoso”. A renderli sicuri non è nemmeno tanto la consapevolezza che entrambi questi due leader riconoscibili del fronte del “no” stiano pesantemente sulle scatole a tutti gli altri, cioè a quelli che in teoria dovrebbero seguirli, ovvero quella sinistra del Pd – leggi Bersani e Speranza – che al solo sentir parlare di D’Alema ancora prova il brivido dispettoso della pelle d’oca (“la sua non è la nostra posizione”), e quella destra berlusconiana che invece, litigiosa com’è, si ritrova solidale nell’idea condivisa che Brunetta sia un elemento pittoresco del serraglio cui ogni tanto padròn Silvio deve tirare la catena lasciata lasca. Ciò che sospinge l’ottimismo irridente dei ragazzi di Palazzo Chigi è piuttosto la certezza che il vasto fronte del “no” risulti abbastanza sgangherato da rendere evidente il vuoto di proposte e di alternative che si occulta dietro il rifiuto delle riforme.

 

E insomma, dicono i renziani, tutta la scena del “no” appare un po’ incongrua, “a tratti surreale come il bar di guerre stellari”: Antonio Di Pietro e Berlusconi, Beppe Grillo e D’Alema, Gustavo Zagrebelsky e Giorgia Meloni, Marco Travaglio e Mara Carfagna, Matteo Salvini e Sandra Bonsanti, in un contesto in cui ciascuno rinuncia a qualcosa della sua biografia, della sua storia, della sua dimensione pubblica e finisce per ritrovarsi non soltanto con i più strani e impensabili compagni di strada, ma persino in contraddizione con il se stesso di ieri: i riformisti di sinistra che si fanno feticisti della Costituzione con il complemento di quei berlusconiani che, passati dall’essere considerati eversivi con tendenze autoritarie perché presidenzialisti e favorevoli al premierato, ora imbracciano la Costituzione più bella del mondo assieme alla Cgil e a Susanna Camusso. E dunque ecco Brunetta che corteggia Michele Emiliano (“mi auguro che si unisca alla nostra battaglia”) ed ecco D’Alema che, per motivare le sue truppe riunite qualche giorno fa a Roma, cita invece Nanni Moretti (“non perdiamoci di vista”), quello stesso Moretti che di lui disse: “Ci vorranno tre o quattro generazioni prima che si vinca di nuovo. Con questi dirigenti non vinceremo mai”.

 

Capace di dire “no”, questo fronte dilatato, per Palazzo Chigi rivela dunque la sua fragilità in un garbuglio di contraddizioni che gli impedisce di trasformare il “no” in una proposta alternativa di qualsiasi tipo, sia anche soltanto quella riforma elettorale il cui spettro si agita in controluce sul dibattito referendario, in attesa della sentenza della Corte costituzionale, e che vede almeno tre idee incompatibili tra loro dentro la minoranza Pd, un paio nella sinistra esterna, un’idea ancora diversa tra i Cinque stelle e una miriade di opzioni incerte in Forza Italia, tutto un inafferrabile carnevale matematico d’inversioni, integrazioni, ibridazioni, attribuzioni, sbarramenti, scorpori, furberie e calcoli personali in cui nessuno è d’accordo con nessuno. 

 

Ma la cosa migliore, dicono, è che in cima a tutto questo pasticcio, alla testa e alla guida, imperversano in televisione, nelle piazze e sui giornali, loro due, D’Alema e Brunetta, Brunetta e D’Alema, il maximum e l’optimum, la coppia dell’anno, sospinti da un’ambizione sempre viva e sempre negata, due avversari con i quali Renzi polemizza felice e incredulo, legittimandoli più che può e ogni volta che può, certo com’è che entrambi stiano antipatici non solo ai loro compagni di partito e di lotta, ma persino ai loro stessi elettori. “Se non ci fossero, dovremmo inventarli”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.