Beppe Grillo e Luigi Di Maio (foto LaPresse)

La logica del referendum costituzionale spiegata a Di Maio & co.

Stefano Ceccanti
Lo schieramento del no non sembra avere alcun piano comune per il dopo: quelli che provano a dire qualcosa, al di là dell’intento negativo di cacciare l’attuale esecutivo, enunciano due disegni entrambi piuttosto fragili e che si escludono tra loro.

In presenza di un referendum su una precisa questione è del tutto ovvio che si formino schieramenti che su altri temi sono eterogenei, sta nella natura dello strumento e nessuno può stupirsene. Tuttavia questa eterogeneità non dovrebbe arrivare fino alla mancanza di un qualsiasi disegno persino sull’eventuale vittoria del proprio schieramento, come hanno purtroppo già sperimentato gli inglesi. Sta qui, come ha già notato Enrico Morando, la debolezza del fronte del no nel referendum di novembre. Infatti, lo schieramento del sì – in caso di proprio successo – immagina di proseguire almeno per un po’ la legislatura per la gestione degli adempimenti più stringenti della riforma, a cominciare da una legge elettorale per il Senato che sostituisca la norma transitoria, dando così anche il tempo per una riarticolazione del sistema politico. Mentre il Pd ambisce ad essere l’offerta politica di centrosinistra per il futuro, la parte proveniente dal centrodestra cercherà di capire se esistono le condizioni per una nuova proposta moderata analoga a quella vista per le elezioni di Milano o se sarà costretta, in assenza di meglio, ad andare da sola. Inutile parlare invece di chi, dentro il Pd, si scopre improvvisamente contrario come cittadino dopo aver votato sì in Parlamento almeno in due letture su tre: si tratta di una strumentalità politica così evidente da non aver bisogno di confutazioni teoriche elevate.

 

Passando invece nell’altro campo, lo schieramento del no non sembra invece avere alcun piano comune per il dopo: quelli che provano a dire qualcosa, al di là dell’intento negativo di cacciare l’attuale esecutivo, enunciano due disegni entrambi piuttosto fragili e che si escludono tra loro. Una parte del centrodestra teorizza che, battuto Renzi, gli si dovrebbe imporre una grande coalizione per riavviare un processo di riforme costituzionali addirittura più ambizioso di quello presente, persino approvando una legge costituzionale che istituisca un’Assemblea costituente al posto del Senato appena scampato alla sua radicale trasformazione. Questa proposta viene paradossalmente applaudita anche da alcuni che si sono sottratti alle riforme in corso pur avendo inizialmente contribuito a elaborarle e votarle. Siamo obiettivamente nel campo della pura fantapolitica. Il M5s sembra invece almeno partire da una premessa più logica: se il corpo elettorale smentisce la riforma che ha avuto ben sei passaggi parlamentari, a quel punto le camere ne escono ovviamente delegittimate e le elezioni sono dietro l’angolo.

 

Tuttavia, nell’impasse che seguirebbe, il M5s non sa cosa rispondere a una semplice domanda: ma se, essendo rimasto un doppio rapporto fiduciario, siete in grado di vincere al ballottaggio dell’Italicum la Camera, ma al Senato – dove si vota col Consultellum – non avete i voti sufficienti, cosa pensate di fare visto che avete sempre escluso di fare coalizioni? Questo deficit politico dovrebbe essere maggiormente indicato agli elettori insieme ai necessari contenuti della sfida referendaria perché fa parte integrante dell’alternativa che si propone ed è anche il vero motivo della preoccupazione reale e innegabile che si respira fuori dal nostro paese. Non si è tenuti ad avere un piano di riserva in caso di propria sconfitta giacché ognuno si batte per vincere. Al contrario, però, battersi per vincere include anche esporre una prospettiva politica generale, di sistema, in caso di propria vittoria. Altrimenti saremmo, come pare, dentro una logica di avventurismo irresponsabile.

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