Matteo Renzi (foto LaPresse)

Cosa intende Renzi per “2018”

David Allegranti
E’ tempo di elaborazione di piani “B” a Palazzo Chigi, dove sono convinti che il referendum sarà vinto o perso di pochi punti. Matteo Renzi domenica alla Versiliana ha detto che “comunque vada il referendum noi [le elezioni] ce le abbiamo nel 2018”.

Roma. E’ tempo di elaborazione di piani “B” a Palazzo Chigi, dove sono convinti che il referendum sarà vinto o perso di pochi punti. Matteo Renzi domenica alla Versiliana ha detto che “comunque vada il referendum noi [le elezioni] ce le abbiamo nel 2018”. Un modo per non “schiodarsi” dalla poltrona, come la leggono gli avversari, sottolineando l’incoerenza rispetto a quando, pochi mesi fa, affermava che in caso di sconfitta se ne sarebbe andato? In realtà Renzi non ha precisato da dove si sarebbe congedato ed è dai tempi di Firenze, quando diceva che fare il sindaco è il mestiere più bello del mondo, che il premier gioca con le parole e le omissioni. Fra gli scenari presi in considerazione a Palazzo Chigi ce n’è uno che “presenta alcune criticità ma non è impossibile”. La precondizione, naturalmente, è che la “forchetta” ipotizzata del referendum rispetti le previsioni: in caso di pesante sconfitta, non sarebbe neanche ipotizzabile; sarebbe semmai la conferma che il brutto risultato delle amministrative non è stato un caso, un incidente di percorso, ma un preciso indicatore di un consenso in consunzione.

 

Votare comunque nel 2018 significa, dalle parti del governo, che Renzi lascerebbe Palazzo Chigi ma resterebbe alla guida del Pd. Questo gli consentirebbe di tornare a rivestire il ruolo di cannoneggiatore, anche se bisogna tenere pure conto che il nuovo governo, che a quel punto sarebbe totalmente del presidente (con a capo Pietro Grasso?), non potrebbe prescindere dal Pd. Sarebbe comunque qualcosa di diverso da quello di oggi, per questo non potrebbe essere presieduto da Pier Carlo Padoan, ragionano a Palazzo Chigi. Renzi dunque non sarebbe a capo del governo ma continuerebbe a essere a capo del partito che animerebbe la maggioranza. Certo è che avrebbe le mani più libere di adesso, anche di occuparsi del partito, il cui stato di salute desta parecchie preoccupazioni, a Largo del Nazareno e dintorni. Sarebbe in piena campagna elettorale, come peraltro già fece Berlusconi quando si dimise nel 2011 per lasciare posto a Mario Monti, sostenerlo fino alla fine del 2012 e poi sganciandosi per primo alla vigilia delle elezioni; risultato: alle politiche del 2013 prese dieci milioni di voti e quasi riuscì a battere Bersani. “Ormai l’abbiamo capito – dicono a Palazzo Chigi – Mattarella non vuole mandarci al voto nel 2017”. Con questo schema – Renzi dimissionario, nuovo governo, Renzi capo di partito – non potrebbe che tornare in voga l’alleanza con Forza Italia, finalizzata magari all’elaborazione di una legge elettorale (l’Italicum, in caso di sconfitta al referendum, diventerebbe un pasticcio). Non sarebbe dunque un semplice cambio dei vertici, ma un cambio di maggioranza. Berlusconi accetterebbe? Magari sì, per il bene delle sue aziende. Al Pd converrebbe? Forse la propaganda grillina acquisterebbe qualche arma in più, di fronte a un altro governo non eletto. Per Renzi, tuttavia, sarebbe una sfida nei confronti di chi si lamenta del suo esecutivo. E, come detto, gli consentirebbe di mettere mano al partito, anche per affrontare il Congresso, “che non sarebbe facilissimo da vincere come l’altra volta ma comunque facile”, sono convinti a Palazzo Chigi.

 

Intanto, però, c’è da vincere il referendum. Da settimane, il premier ha provato a spersonalizzare la battaglia referendaria, “anche perché questa riforma ha un nome e cognome, Giorgio Napolitano. Ma soprattutto perché questa riforma è la riforma degli italiani. Io ho sbagliato a personalizzare troppo. Ma ora bisogna  semplicemente dire la verità sul merito della riforma”. Nel partito però si è passati dal referendum su Renzi a una consultazione sul Pd e sulla tenuta democratica del paese. “Il Pd non può fallire perché è l’Italia che rischia il baratro”, ha detto Piero Fassino a Repubblica. Resta da capire se questa drammatizzazione porti consenso alle ragioni del sì.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.