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Perché i paesi si rivoluzionano con le riforme liberali. Storie concrete

Maurizio Stefanini
In Spagna dal 2005 al 2015 il settore automobilistico è cresciuto dal 5,2 all’8,7 per cento del pil. In Vietnam l’investimento diretto straniero ha raggiunto nella prima metà del 2016 un record da 11,3 miliardi di dollari, con una crescita del 105 per cento. E in Irlanda e in Argentina…

Spagna

 

In teoria il sistema politico è bloccato, ma prima di perdere la maggioranza Rajoy nel 2012 aveva fatto in tempo a fare una importante riforma del mercato del lavoro, che ha permesso agli imprenditori di licenziare più facilmente e ha reso meno vincolante la contrattazione collettiva. Molti elettori spagnoli non hanno gradito, Podemos è nata ed è cresciuta, ma le imprese automobilistiche straniere sono tornate in forze. [continua a leggere]

 


 

Irlanda

 

Malgrado la crisi che aveva colpito il paese a seguito dello scoppio della bolla finanziaria, il governo è riuscito a resistere alle pressioni dell’Ue per aumentare quella famosa aliquota dell’imposta sulle società al 12,5 per cento: soglia che spinge le multinazionali a stabilire sedi dalle parti di Dublino. E lo scorso mese una revisione della crescita a cura dell’Ufficio Centrale di Statistica ha calcolato per il pil nel corso del 2015 una crescita mostruosa del 26,3 per cento: un boom dovuto soprattutto all’aumento del numero di aerei importati in Irlanda per attività di leasing e, appunto, all’impennata della massa di capitale delle multinazionali con sede nel paese. [continua a leggere]

 


 

Argentina

 

L’effetto propulsivo di un semplice tasso delle imposte è ora rappresentato anche dall’Argentina di Mauricio Macri, una delle cui primissime mosse è stata quella di smantellare quel sistema di imposte all’export agricolo che era stato alla base della politica economica kirchnerista: le “retenciones”, come venivano definite, sono state tolte per tutti i prodotti eccetto che per la soia, dove comunque l’aliquota è stata abbassata dal 35 al 30 per cento. Come per miracolo, l’esportazione di grano è aumentata di netto del 117,5 per cento in un anno: da 3.009.500 a 6.545.000 tonnellate. La cosa è stata peraltro accompagnata da un’apertura dell’economia più generale, con la fine del regime di razionamento del dollaro, l’abbassamento ai limiti del Wto delle tariffe doganali di 1400 prodotti e la normalizzazione con i creditori. [continua a leggere]

 


 

Cile

 

Si è parlato molto negli anni scorsi dei Fondi sovrani, con cui alcuni paesi produttori di petrolio e altre materie prime e/o benedetti da un alto export hanno reinvestito ingenti utili cercando al contempo di evitare pressioni inflazionistiche: un meccanismo utilizzato sia per creare crescita all’interno che per acquisire influenza e asset strategici all’estero, senza essere troppo bancocentrici.  Ma un effetto analogo lo ha avuto il sistema pensionistico retributivo inventato in Cile negli anni ’80 dall’allora appena 30enne Chicago Boy Juan Piñera, che punta  a finanziare le pensioni attraverso l’accantonamento sul reddito fatto da ogni singolo nel corso della sua vita. [continua a leggere]

 


 

Vietnam

 

E’ un paese governato da un partito unico comunista, ma dove l’investimento diretto straniero ha raggiunto nella prima metà del 2016 un record da 11,3 miliardi di dollari, con una crescita del 105 per cento. E dagli anni ’90 la crescita del suo pil pro capite è stata costante ad almeno il 6 per cento l’anno. [continua a leggere]

 


 

Myanmar

 

Il Vietnam sembrerebbe confermare quel modello cinese secondo cui in Asia Orientale il decollo dell’economia deve precedere la democratizzazione: con la differenza che in Corea del Sud, Taiwan o Indonesia a un certo punto la fase della libertà politica è arrivata, mentre Cina, Laos e Vietnam sono ancora concentrati nella mera riforma economica e nella crescita, e Thailandia e Cambogia sono addirittura in piena fase di involuzione autoritaria. Ma Myanmar rappresenta un’interessante eccezione proprio nel senso che il boom, qui, è arrivato in concomitanza con l’apertura politica. Nel 2010 Aung San Suu Kyi fu liberata; nel 2011 la crescita del pil era al 5,6 per cento. Nel 2012 fu eletta in Parlamento, e la crescita passò al 7,3. Fu l’8,4 nel 2013 e dell’8,7 nel 2014, mentre la transazione andava avanti. Calò, si fa per dire, al 7,2 nel 2015, anno in cui l’8 novembre si tennero le elezioni che hanno dato al partito di Aung San Suu Kyi il 77 per cento. Ma è stata colpa di un’ondata di maltempo, cessata la quale per il 2016 si aspetta un +8,4. [continua a leggere]

 


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