Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

La notizia della morte del renzismo è stata ampiamente esagerata

Claudio Cerasa
La prima sconfitta del Pd di Renzi dice tutto e il contrario di tutto. Tre lezioni utili per il premier. C’è tutto e il contrario di tutto in questa tornata elettorale. Ma i messaggi per il presidente del Consiglio ci sono e bene ha fatto il presidente del Consiglio ieri a non nascondere la verità.

I segnali sono tanti, soprattutto per Renzi, ma un vero trend nazionale non c’è e per quanto possa ingolosire parlare di “onda grillina” e di “tsunami a cinque stelle” le elezioni comunali ci dicono tutto e il contrario di tutto. Ci dicono che il Movimento 5 stelle è forte, perché ha vinto a Roma e a Torino e in 19 delle 20 città in cui è arrivato al ballottaggio, ma ci dicono anche che le città arrivate al ballottaggio erano 126 e che in molte di queste il Movimento 5 stelle si è fermato al primo turno (anche se Roma è Roma e Torino è Torino). Ci dicono che il Pd vince con avversari deboli (Bologna) e candidature innovative (Sala) e perde quando la rottamazione la fanno gli altri (Pd vs M5s ai ballottaggi finisce 0-11) ma allo stesso tempo le elezioni ci dicono che vincono contemporaneamente i sindaci renziani (Sala) e quelli meno renziani (Zedda) e che gli usati sicuri (vedi nel centrodestra) non sempre si possono buttare via (vedi Mastella a Benevento, vedi l’ex sindaco di Trieste Dipiazza rieletto a Trieste dopo cinque anni, vedi l’ex sindaco di Olbia Settimo Nizzi rieletto dopo nove anni). Ci dicono inoltre, le comunali, che il centrodestra (Salvini chi?) è competitivo quando è più di governo che di lotta (Trieste, Grosseto) e che con questo modello è passato dall’avere quattro comuni capoluogo all’averne undici. Ma ci dice anche che il modello del futuro, che doveva essere Milano, si è fermato a Milano dove Parisi è andato bene (ma ha perso) e dove Sala è riuscito invece a fare quello che al Pd non è riuscito nel resto d’Italia (conquistare gli elettori di centro con un candidato modello Partito della nazione). Le elezioni, infine, ci dicono anche che la minoranza del Pd alzerà la vocina e chiederà al segretario del Pd un qualche intervento sul partito (il congresso, che Renzi concederà) ma allo stesso tempo i dati sul ballottaggio (e i dati che arrivano dalle altre sinistre d’Europa) ci dicono anche che la famosa sinistra che fa la sinistra non arriva lontano: le scissioni nella gauche hanno portato a molti casi di Fassina-chi e i candidati più vicini alla sinistra (a parte Zedda a Cagliari) o hanno faticato fino all’ultimo (Merola a Bologna) o hanno perso in partenza (Valente a Napoli). C’è tutto e il contrario di tutto in questa tornata elettorale. Ma i messaggi per Renzi ci sono e bene ha fatto il presidente del Consiglio ieri a non nascondere la verità: quella di domenica, con molti se e molti ma, è stata la prima sconfitta del Pd renziano. Nulla di irreparabile, nulla di compromesso, nulla di definitivo ma alcuni spunti utili che arrivano al premier ci sono e sarebbe sciocco non tenerli a mente. Soprattutto in vista del referendum costituzionale del 2 ottobre (mancano 100 giorni).

 


Chiara Appendino, nuovo sindaco di Torino (foto LaPresse)


 

Il referendum di ottobre, così come le future politiche, sarà probabilmente una storia diversa ma il dato delle comunali consegna comunque a Renzi tre riflessioni importanti: non apertura del Pd, ritardo del rinnovamento della classe dirigente, sfida all’ultimo sangue tra partito della nazione e partito della regione. Da sempre, fin dalle origini, la caratteristica vincente del Pd renziano è stata quella di essere un partito aperto e capace cioè di accogliere nuovi elettori non necessariamente provenienti da un percorso di centrosinistra. Dalle comunali non arriva nessuna sentenza definitiva sulla salute del renzismo ma il fatto che il Pd perda regolarmente al ballottaggio (undici volte su undici) quando si ritrova di fronte il Movimento 5 stelle è un indizio chiaro del fatto che in uno scontro tra Renzi e Grillo i voti del centrodestra rischiano di finire più verso il Movimento 5 stelle che verso il Partito democratico (il caso Torino è più che emblematico: Fassino aveva 42 mila voti di vantaggio al primo turno su Appendino, al secondo turno ha mantenuto i voti del primo turno con l’unica differenza che Appendino è riuscita a raccogliere i voti di quasi tutto il centrodestra). Problema numero uno, dunque: riuscirà nelle prossime settimane Renzi ad allargare nuovamente il campo da gioco e a far diventare il voto sul referendum una battaglia non solo del Pd?

 

Il secondo dato interessante riguarda una contraddizione significativa del Partito democratico renziano. Il rinnovamento della classe dirigente è un tema noioso, lo sappiamo. Ma è un tema che diventa centrale se il leader che non compie il rinnovamento è lo stesso che è diventato leader attraverso una parola magica oggi sbiadita: la rottamazione. Anche qui nulla di grave e tutto ancora risolvibile. Ma è un dato di fatto che tranne alcuni rarissimi casi il ricambio generazionale portato avanti da Renzi sia rimasto circoscritto all’interno del perimetro di Palazzo Chigi. Matteo Richetti, deputato del Pd, renziano atipico, frondista, già spalla del premier alla Leopolda, ieri ha ricordato con malizia che le kermesse renziane pullulano da sempre di Appendini e di Appendine e la questione ha indubbiamente un suo peso: a Palazzo Chigi e al governo ci sono le Boschi, i Lotti, i Nannicini, ma fuori cosa c’è, e dove arriva la rottamazione? Fuori, appunto, c’è lo scontro profondo tra partito della nazione (fronte del governo) e partito della regione (fronte del territorio). Ovvero tra un’idea di partito a vocazione maggioritaria e un’idea di partito a vocazione correntizia che considera da sempre, come la minoranza del Pd, il presidente del Consiglio un salvagente provvisorio da utilizzare per un breve periodo e solo fino a quando non si troverà un’altra nave sulla quale saltare. Piccoli dati, questi sì di carattere nazionale, che disegnano una nuova e caotica cartina dell’Italia. Renzi resta il protagonista centrale della storia ma per la prima volta da quando è a Palazzo Chigi non può dire più TINA: there is no alternative. Le alternative ci sono. Fiacche, contraddittorie, con mille debolezze, spesso non credibili, spesso pompate ad arte da alcuni giornali, ma comunque ci sono. Da una parte c’è Grillo, dall’altra c’è il centrodestra. Al referendum mancano cento giorni, alle politiche chissà. Ma il tempo per dimostrare che la notizia della morte del renzismo è stata ampiamente esagerata c’è. Ora tutto sta nel non perdere più tempo, come fatto negli ultimi tempi.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.