Luigi Di Maio (Foto LaPresse)

Un giorno da talk

Salvatore Merlo
“Mo’ voi giornalisti venite in studio, poi uscite quanno entra Di Maio, e rientrate con Salvini, ok?”. La Casaleggio Associati chiama, le redazioni rispondono, prendono appunti, e le trasmissioni cucinano la trama delle interviste solitarie e senza contraddittorio.

Canale 5, Roma, studio del Palatino, mercoledì 8 giugno, ore 20. Si registra “Matrix”, con Luca Telese. L’assistente di regia si esprime con l’aria che hanno gli uomini da tempo rassegnati a monotoni orizzonti di lavoro, guarda gli ospiti, per lo più giornalisti, uno del Foglio e una del Fatto, li misura distrattamente con lo sguardo, poi in romanesco bonario spiega la procedura: “Mo’ voi entrate in studio, fate due battute co’ Luca, poi però entra Di Maio e voi dovete uscire di corsa…”. Pausa d’imbarazzo. Come uscire, scusi, in che senso? “Dovete lascia’ lo studio”. Ce ne andiamo a casa. “No, no, dovete fa’ finta de non esserci proprio finché ce sta Di Maio”. Noi non ci siamo. “E niente domande”. Zitti e mosca. “Però quanno se collega Salvini da Milano allora potete rientra’ in studio”. E Salvini invece se le fa fare le domande? “Sì, Salvini sì. Poi però dovete usci’ quanno entra Chiara Appendino che se collega da casa sua a Torino”. E noi sparire. “Ma poi rientrate”. Ah. “C’è Anna Maria Bernini di Forza Italia”. E si fanno le domande. “Eccerto”.

 

Rocco Casalino, capo staff della Casaleggio Associati presso il Senato della Repubblica, chiama, le redazioni rispondono, prendono appunti, e le trasmissioni – “Ballarò”, “Piazza Pulita”, “Di Martedì”, “Agorà”… tutti i talk-show – cucinano la trama delle interviste solitarie e senza contraddittorio (però li chiamano “confronti”) con gli ingredienti che gli vengono consentiti. Le richieste dei politici annegano in un oceano di tolleranza, di rassegnazione, di comprensione, complice la par condicio, vera imbecillità italiana, la legge che trasfigura in commedia l’idea stessa dell’alternanza democratica, una forma di satira involontaria introdotta dal centrosinistra molti anni fa, il tentativo grottesco di abolire la faziosità per legge. Par condicio significa infatti che a una cretinata di un partito deve sempre seguire una cretinata di un altro partito, obbligatoriamente di uguale peso e misura, e dunque a una faccia di destra deve essere sempre alternata una faccia di sinistra, con l’effetto dell’elisione sia della destra sia della sinistra ma con l’occupazione a tutto campo della cretinata. Così, se c’è Fassino per otto minuti, deve esserci per forza anche Appendino per otto minuti, a qualsiasi costo e a qualsiasi condizione. E se c’è Giachetti non puoi non avere Raggi, a qualsiasi condizione, anche la più umiliante: dettatura degli ospiti, cacciata dei giornalisti, controllo sulle domande, scelta della location, “noi preferibilmente in studio non veniamo”. E il conduttore insacca quello che può, quello che gli danno, come il droghiere con le salsicce.

 

A chi in questi giorni è riuscito di vincere la noia, la greve noia che entra come nebbia nelle case, nei salotti, nelle camere da letto, dovunque ci sia un televisore acceso e un talk-show che sbraita nelle orecchie (suggerendo dubbi sulla necessità dell’esistenza umana), a chi non è schiantato di fronte ai comizietti da campagna elettorale propinati a tutte le ore da tutti i canali, sarà capitato di assistere all’ammirevole incastro di sceneggiatura cui la televisione è obbligata a piegarsi: Di Battista che pretende e ottiene da “Ballarò” di stare da solo in piazza, “perché noi siamo diversi”, come Di Maio splendido e solo a “Piazza Pulita” (mentre Orfini, che evidentemente ha meno capacità contrattuale, si ritrova tre giornalisti che gli mordono anche i polpacci), e infine Virginia Raggi: lei compare quasi esclusivamente per strada, la borsetta e gli occhiali da sole sapientemente in mano, come fosse appena scesa di casa e sorpresa lei stessa di trovarsi chissà come davanti a un microfono e una telecamera protesi dal conduttore in persona. “Io non passo le mie giornate in televisione”, dice mentre sta in televisione (e pure con il sorriso di chi ha dalla sua parte una logica inoppugnabile).

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.