Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Modello da seguire o zavorra da sopportare? Tutte le resistenze al riformismo renziano viste dall'Europa

Redazione
La riforma istituzionale attesa all'esame di ottobre, quella del Lavoro dall'impatto limitato, la crisi delle pmi. Così l'Ue osserva e valuta il processo di rinnovamento del nostro paese.

Tra i paesi dell'Unione europea l'Italia ai tempi di Matteo Renzi incarna in modo biunivoco la grande speranza di rinnovamento e di ripresa da una parte, ma anche una delle maggiori incognite del continente. Il riformismo del premier era iniziato tra grandi aspettative, con provvedimenti che intendevano scrollare dal paese il macigno di un sistema istituzionale obsoleto e di un mercato del Lavoro immobilizzato. Col passare del tempo, fanno notare i commentatori europei, lo slancio iniziale ha cominciato a segnare il passo e i benefici per il sistema paese portati dalle scelte del governo – spesso anche coraggiose –  hanno avuto un impatto limitato.

 

Il corrispondente da Roma del quotidiano economico francese Echos, con un articolo pubblicato oggi, si sofferma in particolare sul referendum costituzionale di ottobre a cui il presidente del Consiglio ha legato il proprio futuro politico. Le semplici parole "riforma istituzionale", nota Tosseri, in Italia risvegliano il fantasma dell'uomo forte che impone alla democrazia una deriva autoritaria e Renzi non sfugge a questi sospetti, anche se non sta introducendo un regime presidenziale all'americana o semi-presidenziale alla francese ma solo un parlamentarismo razionalizzato.

 

Le resistenze al riformismo piacciono più all'Europa che all'Italia, quindi. Quantomeno per gli sforzi profusi fino a oggi dal governo. Il problema, ha osservato il settimanale britannico Economist, è che il nostro resta un paese che consegue risultati più modesti rispetto alle proprie possibilità; i suoi presidenti del Consiglio, deboli o poco seri, non hanno lasciato il segno. L'iperattivo e giovane Matteo Renzi, continua il magazine, ha promesso di cambiare le cose. Ora ha un piano per l'Europa. Più o meno funziona così: primo, riguadagnare credibilità; secondo, sottolineare le credenziali europeiste; terzo, proporre una visione alternativa. Renzi ha un approccio che non si adatta alla lenta costruzione di alleanze necessaria per ottenere qualcosa a Bruxelles; il suo problema maggiore, però, è in casa. Gli elettori italiani hanno perso il tradizionale euroentusiasmo e il quadro economico è fosco. Se sopravviverà al referendum di ottobre, la sua strategia potrebbe iniziare a funzionare: una storia attraente per un'Europa senza leadership, quasi una favola, secondo l'Economist.

 

Una favola che però deve anche trovare delle risposte al malessere dell'economia italiana, ferma ai livelli di pil del 1999 e in cui la sopravvivenza delle piccole aziende, scrive il Wall Street Journal, a lungo termine potrebbe venir meno. Addirittura, il tessuto delle pmi nostrane rischierebbe di minare la coesione dell'Eurozona, un'area valutaria caratterizzata da tensioni e squilibri sempre più profondi. Gli economisti stimano che nel primo trimestre dell'anno l'economia italiana sia cresciuta appena dello 0,3 per cento rispetto ai tre mesi precedenti, un tasso inferiore alla metà rispetto al totale dell'Eurozona, dove pure la crescita è stentata. L'economia italiana è cresciuta in tutto dello 0,8 per cento nel 2015, il primo risultato positivo in quattro anni. Entro la fine del quarto trimestre, però, la terza economia dell'Eurozona pareva aver già ripreso a rallentare, e questo nonostante fattori esogeni assai favorevoli, continua il Wsj, quali il calo dei pezzi del petrolio, la svalutazione dell'euro e le politiche espansive della Banca centrale europea. I problemi dell'Italia, scrive però il quotidiano, hanno natura strutturale.

 

Nei suoi primi anni di mandato, Renzi ha provato a dare una scossa al paese e ha avviato un ambizioso programma di riforma, partendo dal mercato del lavoro: i risultati di tale sforzo sono stati, almeno sul fronte economico, assai limitati. "Il cavallo non beve", ha scritto Lorenzo Bini Smaghi in un recente editoriale sul Corriere della Sera. I prestiti bancari espressi in funzione del pil sono inferiori del 10 per cento ai livelli pre-crisi, le vendite di abitazioni calano del 30 per cento. L'industria opera al 60 per cento della capacità. L'iniezione di liquidità mensile di 80 miliardi di euro operato dalla Bce ha aiutato soprattutto le grandi aziende, che dispongono di canali efficaci per accedere a prestiti a basso tasso d'interesse e per sfruttare la debolezza dell'euro alimentando le esportazioni. La galassia delle piccole aziende, spesso a conduzione familiare, vivono invece una congiuntura critica: la deflazione impedisce loro di aumentare i prezzi, e il peso della tassazione e dei vincoli burocratici è in continuo aumento. Proprio questo peso gravoso, che erode i margini di utile, ha progressivamente ridotto la produttività delle piccole e medie imprese sino a un livello inferiore del 10 per cento rispetto alla media europea. "Non si tratta di qualcosa che le politiche monetarie possano cambiare", avverte Guntramm Wolff, direttore del think tank Bruegel Institute. Nelle attuali condizioni, numerosissime aziende italiane di piccole dimensioni non possono far altro che provare a sopravvivere alla giornata. Altre hanno già gettato la spugna.