Matteo Renzi (foto LaPresse)

Limiti e obiettivi della pax renziana

Salvatore Merlo
Una carezza a Pier Luigi Bersani, un buffetto a Piercamillo Davigo, un regalino a Susanna Camusso, una pacca sulle spalle adirate della diplomazia di carriera. E sempre più Matteo Renzi accentua carnali e ondulanti lusinghe, a tutti offre un suo inedito lato convesso.

Roma. Una carezza a Pier Luigi Bersani, un buffetto a Piercamillo Davigo, un regalino a Susanna Camusso, una pacca sulle spalle adirate della diplomazia di carriera. E sempre più Matteo Renzi accentua carnali e ondulanti lusinghe, a tutti offre un suo inedito lato convesso, “sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”: dove c’era un conflitto cali come un velo la pace. Una fase nuova dopo i botti e le botte della rottamazione, dopo il fraterno accoltellamento di Enrico Letta, dopo la riforma del mercato del lavoro, dopo la baldanza delle fiducie pretese e conquistate tra i fischi e i lazzi della sinistra.
Eppure il presidente del Consiglio, mentre si dispone a far violenza alla propria natura spavalda, è seduto sulle puntine da disegno, non sugli allori. Se infatti dall’Europa, che un tempo lo guardava con occhi tra lo scettico e l’ironico, parvenu scarsamente alfabetizzato, adesso giungono invece attestati di stima, di sostegno, diretti e indiretti, potenti come le concessioni sulla flessibilità e come la promessa d’un endorsement politico da parte di Angela Merkel e di David Cameron, e se insomma all’esterno tutto il campo sembra sgombro e favorevolmente disposto, lo stesso non si può dire del fronte interno, quello italiano. Per ogni carezza che fa, Renzi ha l’impressione di ricevere uno schiaffo: dalla minoranza del Pd, dai giudici, dal sindacato. E d’altra parte, qualcuno tra i suoi amici più antichi, tra gli uomini e le donne delle prime e quasi clandestine Leopolde, qualcuno come Davide Serra, ma non solo, è tornato a suggerirgli di mandare tutti al diavolo: troppi nemici, troppi ingrati, troppi fronti aperti, “meglio le elezioni che uno stillicidio”. Ma c’è il referendum.

 

E sempre Renzi si è mosso con l’aria inquieta e affamata del lupo, strappando voti di fiducia, riforme e nomine, come aveva scippato la toga di segretario, senza mai ricorrere alla preghiera o al baratto, alla saggezza sperimentata della politica: l’equilibrismo, la trattativa, l’arte morbida ed eterna del compromesso, la stregoneria delle antiche volpi democristiane. Poi è arrivata però la riforma della Costituzione, con il referendum di ottobre, quella battaglia della vita che s’è trasformata nel nodo dei suoi timori, ma anche, forse, nel perimetro della sua vendetta. “Nessuna polemica con i magistrati in campagna elettorale”, ha dunque imposto a chiunque, dentro e fuori dal giglio magico, tra le stanze e i corridoi dove la politica è maneggiata con accento fiorentino, “e tantomeno prima del referendum… Poi, dopo ottobre, vedremo, si apre un’altra partita”. E dunque, mentre il dottor Davigo s’abbandonava a qualche eccesso, mentre il dottor Morosini si confessava con Annalisa Chirico, mentre il sindaco di Lodi finiva in carcere e da ogni lato si facevano risuonare i corni della questione morale a sinistra, lui, il Renzi assediato, imponeva invece il silenzio dei suoi, impegnandosi ad accarezzare per il verso giusto il pelo dei giudici: “Auguriamo buon lavoro ai magistrati”. Mai una parola né un pensiero spettinati, ma al contrario contatti, telefonate, rassicurazioni, e una benedizione politica che deve avere il sapore d’un trattato di pace: Francesco Greco nuovo capo della procura di Milano, e con tanti auguri di Palazzo Chigi, con il voto di Giovanni Legnini e quello del renziano di complemento Luca Palamara. Pace dunque con giudici, e “una moratoria dall’insulto interno” con la minoranza del Pd, addirittura il congresso anticipato, e pace con gli ambasciatori (con la promozione di Carlo Calenda, riportato a Roma, sostituito da un diplomatico di carriera, Maurizio Massari), e pace persino con la Cgil: “Se si possono fare gli accordi siamo qui”. Tutto per il referendum, per il referendum tutto. Ma funziona? Forse no. Il gioco rimane sospeso, in bilico, indecifrabile agli occhi attenti di Palazzo Chigi, tra laceranti abissi d’ambiguità. Il Pd è sempre un labirinto diviso in due, compatto e riunificato solo dal reciproco sospetto.

 

Quel che andava riconciliato, malgrado la concessione sul congresso, è rimasto infatti diviso: Renzi vorrebbe la massima mobilitazione sul referendum, vorrebbe vedere il partito muoversi e marciare risoluto come il passo della legione tebana, e invece gli esponenti della minoranza prendono tempo, alludono, si negano, ondeggiano strumentalmente. E dei magistrati ci si può fidare? E fino a che punto si può andare avanti con la Cgil? Certo, la Confindustria è tornata amica, dopo Squinzi. Ma tutto il resto fa ancora trasparire vibrazioni ostili. E allora la pax renziana rimane in sospensione, mai davvero sedimentata. Così, nell’ombra delle confessioni e delle libere chiacchiere private, i più renziani suggeriscono l’azzardo. “Dopo il referendum il voto”. Ma chissà.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.