Matteo Renzi con Beppe Sala

Se Parisi dice “no” alla Bindi

Renzi dovrebbe partire da Milano per curare il giustizialismo del suo Pd

Maurizio Crippa
 “Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. E’ finito il tempo della subalternità”. Se Matteo Renzi volesse saggiare la tenuta politica di questa sua perentoria e condivisibile affermazione, con cui ha risposto alle intemerate di Piercamillo Davigo, dovrebbe forse trovare il tempo di passare da Milano.

Milano. “Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. E’ finito il tempo della subalternità”. Se Matteo Renzi volesse saggiare la tenuta politica di questa sua perentoria e condivisibile affermazione, con cui ha risposto alle intemerate di Piercamillo Davigo, dovrebbe forse trovare il tempo di passare da Milano. Non perché Milano è la città di Davigo, o perché vi stia succedendo chissà cosa. Ma per rendersi conto di dove stia il punto di debolezza della politica rispetto allo schema giustizialista. E accorgersi, magari, che quella debolezza alligna prima di tutto in parte del suo partito e nella sua sponda di sinistra. A Milano ha un buon candidato, Beppe Sala, curiosamente sotto schiaffo para-giustizialista proprio da parte della sinistra che lo bombarda sui conti dell’Expo (niente di minimamente penale: ma basta urlare), e che invece di difendersi politicamente finisce con l’innervosirsi. Però il Pd ha anche un capolista, Pierfrancesco Majorino, che anziché stare con Renzi plaude alle idee di Davigo. E Sala ha un amico e grande sostenitore come Umberto Ambrosoli, capo del Pd in regione, che su Twitter la pensa come Mario Calabresi sulla necessità di lasciar fare le riforme ai giudici. E’ la paranoia del controllo di legalità. Invece, dall’altra parte, c’è un candidato come Stefano Parisi che, intervistato dall’Huffington Post sulla questione dei candidati “certificati antimafia”, risponde: “La questione morale c’è, ma non si risolve certo portando le liste a vidimare da Rosy Bindi. Non se ne parla proprio. Le liste le garantiamo noi, e mettiamo persone che conosciamo e di cui ci fidiamo e che non hanno commesso reati. Quando la politica si presta a questo tipo di atti dimostrativi sulla corruzione abdica al proprio ruolo di garanzia verso i cittadini”.

 

A Milano la politica – intesa come responsabilità di decidere e fare – ha pagato negli anni passati un tributo grave agli eccessi giustizialisti. Ma, soprattutto, li ha pagati la sinistra. Ieri, commentando con la Stampa il dato impressionante sulla quantità di persone giudicate innocenti dopo essere state arrestate, Filippo Penati diceva: “Dentro il Pd c’è ancora ambiguità. Per esempio, quando sento Majorino dire che Davigo è stato sopra le righe, ma non bisogna prendersela con lui, basta che non si rubi. Che vuol dire? Che non si vuole dispiacere il populismo giustizialista?”. Penati, ex sindaco di Sesto, presidente di provincia e braccio destro del segretario Pier Luigi Bersani, è autorizzato a parlare: ha subìto un’indagine di quattro anni e un processo di tre, si è sentito definire “delinquente abituale” prima di essere assolto “perché il fatto non sussiste”. Il fatto inteso come “il sistema Sesto”, il consueto schema-monstre attraverso cui i pm corroborano le indagini. Dunque, quando sente Davigo dire che i politici “non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi” si risente, ma forse anche più quando nota che questo tipo di cultura è ancora dentro al Pd. Il Pd che lo espulse sulla base di un avviso di garanzia. E Bersani? “Non ha potuto arginare l’ipocrisia del Pd”.

 

Riuscirà ad arginarla Renzi? La giunta uscente in cui sedeva Majorino ha fatto della legalità un fiore all’occhiello, e ha fatto un percorso quasi netto. Bene, anche se forse l’unico vero obiettivo raggiunto. Ma comunque la si guardi, con quella buona “eredità Pisapia” alle spalle, la prima delle preoccupazioni del Pd non dovrebbe essere quella di dare ragione a Davigo, ma piuttosto quella di rivendicare per sé la regola di farsi giudicare solo dagli elettori. Paradossalmente, Renzi trova in Parisi – che fu ingiustamente lambito da un’altra indagine-monstre, la Fastweb-Telecom Italia-Sparkle – una sponda più attrezzata a capire le sue ragioni. Anche se, in materia, la confusione regna pure nel centrodestra. Ieri Jole Santelli, coordinatore regionale di Forza Italia in Calabria, ha scritto a Rosy Bindi, chiedendole di vidimare tutti i candidati della sua regione per le prossime elezioni. Con quelle liste di proscrizione preventiva che Parisi invece rifiuta, e in base alle quali Vincenzo De Luca in Campania non avrebbe neppure dovuto candidarsi. Alla domanda “vede in arrivo una nuova stagione di conflitto tra politica e giustizia?”, Parisi ha risposto: “Spero proprio di no. E comunque oggi l’epicentro non sarebbe più Milano, ma Roma e la Toscana. Gli epicentri si spostano col mutare dei leader. E’ strano questo paese”. Forse sì.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"