Nasce il potere legislativo delle procure
Questa settimana, per la prima volta da quando se ne è avuta notizia, per sapere le novità sull’inchiesta della procura di Potenza è stato necessario sfogliare un numero maggiore di pagine dei grandi giornali. La degradazione nella gerarchia delle notizie è sicuramente dovuta all’attualità incalzante ma con qualche probabilità anche al risultato del referendum, rispetto al quale l’iniziativa dei pm lucani si è rivelata del tutto ininfluente. Eppure personaggi sempre nuovi popolano le cronache dell’indagine, nuovi filoni, come si usa dire, si aprono e non di sole intercettazioni si riempiono gli atti giudiziari e le pagine dei giornali. Anche le lettere anonime ottengono adeguato risalto, come nel caso dell’ammiraglio De Giorgi su cui, partendo appunto da un anonimo, si è centrata l’attenzione della stampa che riporta gli spunti d’indagine coltivati dagli investigatori.
Per esempio su quella che i pm definiscono “una operazione di speculazione edilizia nella zona del porto di Napoli”. Ne ha scritto Repubblica qualche giorno fa. Per come viene riassunta, la faccenda è singolare. L’attenzione degli inquirenti nasce dai contatti telefonici fra l’ammiraglio e Nicola Colicchi, che aspirava alla presidenza della Lega navale. Colicchi è in contatto con De Giorgi, capo di Stato maggiore della marina, perché un altro ammiraglio, di rango inferiore, si è mostrato ostile alle sue ambizioni. In una telefonata De Giorgi prova a mettere a frutto le numerose relazioni di Colicchi chiedendogli informazioni su un progetto relativo al porto di Napoli di cui ha saputo vagamente dall’allora governatore Caldoro e dal sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano, sul quale non dà un giudizio granché positivo. Infatti, stando a quel che Repubblica mette fra virgolette, l’ammiraglio si chiede come mai il sottosegretario si occupi della ristrutturazione portuale che non riguarda il suo collegio elettorale, e ne deduce che debba trattarsi di “una operazione speculativa, da cui prenderà dei soldi”.
Interrogatorio all'ammiraglio De Giorgi nell'ambito dell'inchiesta Total (foto LaPresse)
In sostanza a formulare l’ipotesi di reato è l’intercettato, prima ancora dei pm. Ma gli inquirenti trovano assai sospetto che il capo di Stato maggiore della marina si interessi alla ristrutturazione di un porto così come di un altro progetto relativo ai “Sistemi di Difesa e sicurezza del territorio”, interesse che, per un alto grado militare, non appare incongruo. Anche una cena al circolo della marina, notizia di apertura sul Fatto di ieri, sia pure organizzata dall’iperattivo Colicchi con pezzi grossi della Guardia di Finanza e dei Servizi e con la senatrice Finocchiaro guest star, non appare in sé penalmente censurabile. Si sarà parlato di nomine? Più che possibile. Se mai quello più in difficoltà sarà stato Colicchi quando avrà provato a inserire, nel Risiko delle poltrone di Stati maggiori e servizi segreti, l’agognata presidenza della Lega navale.
In ogni caso è logico pensare che sull’ammiraglio De Giorgi la magistratura lucana abbia qualcosa di più solido in mano, anche se l’imputazione di peculato per l’uso personale del telefonino di servizio sembra sostanziare sviluppi clamorosi. Eppure, fra telefonate che si incrociano, cene e incontri, i pm sono giunti a ipotizzare l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze illecite. Nel reato associativo è incappato anche Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria e presidente di Unioncamere. Soprattutto Lo Bello è stato l’uomo simbolo di una stagione della Confindustria siciliana, quando arrivò, con il sostegno dell’allora presidente nazionale Luca di Montezemolo, al vertice regionale dell’associazione degli industriali. La sua fu una presidenza di svolta. Venne rottamato, anche se non si diceva ancora così, il vertice locale e si istituì un rigido codice di comportamento antimafia. Destino vuole che oggi l’altro esponente di punta di quella primavera confindustriale siciliana, Antonello Montante, si trovi indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, per la verità da oltre un anno senza che la procura di Palermo abbia ancora deciso se chiedere il rinvio a giudizio.
Senza dubbio la posizione di Montante è comunque fonte di imbarazzo per i vertici di Viale dell’Astronomia, soprattutto dopo che, oltre a Repubblica, da subito schierata con la procura palermitana, recentemente anche il Corriere della Sera con un editoriale di Paolo Mieli aveva sollecitato le dimissioni di Montante dalle sue cariche in Confindustria. Del resto anche il fidanzato dell’ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, è cresciuto nell’associazione degli industriali siciliani nel periodo della “primavera antimafiosa”, andando a ricoprire il ruolo di presidente della sede di Siracusa che proprio Ivan Lo Bello aveva già ricoperto. Non c’è dubbio che il filone siciliano dell’inchiesta partita a Potenza apra un capitolo ulteriore sulla valutazione di un periodo politicamente importante per l’isola, quando l’assemblea regionale era guidata da Raffaele Lombardo e la sua giunta fece sponda con la rinnovata Confindustria locale – per poi rompere proprio su temi relativi a piattaforme petrolifere e rigassificatori.
Ma conviene tornare all’inserimento nell’inchiesta di Ivan Lo Bello, una volta ricordato che si tratta di persona politicamente di rilievo. Anche lui è in fondo vittima del poliedrico Colicchi. Il reato ipotizzato dai pm è l’associazione a delinquere finalizzata al controllo di un pontile del porto di Augusta. L’associazione sarebbe composta da quattro persone, due promotori, Colicchi e Gemelli, e due partecipanti, Lo Bello e il segretario della senatrice Finocchiaro, Paolo Quinto. Il dirigente confindustriale si attiva perché venga prorogato nel ruolo di autorità portuale l’avvocato Cozzo. “Ha perorato la nomina di Cozzo”, lo inchioda un rapporto di polizia. E così il peroratore entra nell’associazione a delinquere. Per la verità l’implacabile Colicchi ottiene da Lo Bello anche una telefonata di sponsorizzazione, al capogruppo alla Camera del Pd, per la sua nomina alla Lega navale. Ma il reato di traffico d’influenze illecite, istituito nel 2012 dal governo Monti, consente questa discrezionalità dei pm nel valutare l’illiceità o meno di una telefonata in cui si parla di nomine. E altro ancora se si pensa alle indagini della procura lucana sulla genesi dell’emendamento inserito nella legge di Stabilità dopo essere stato espunto dal decreto “Sblocca Italia”.
L'imprenditore Ivan Lo Bello (foto LaPresse)
L’iniziativa giudiziaria si muove in quel caso su un terreno delicatissimo che attiene all’autonomia del potere legislativo. Ha fatto sicuramente male la ministra Guidi a raccontare al suo interessato fidanzato il percorso del decreto in tempo reale, ma pensare a un provvedimento “ad personam” appare fuori misura, quando anche le polemiche del dopo referendum hanno mostrato come lo scontro fra potere esecutivo centrale e poteri regionali fosse il vero oggetto delle tribolazioni parlamentari di quell’emendamento. La “consistenza criminosa inafferrabile” del reato di “traffico di influenze”, per citare l’espressione usata dal professore e avvocato Tullio Padovani su questo giornale, finisce di fatto per consentire pericolosi e ambigui sconfinamenti del potere togato in campi che non dovrebbero essere di sua pertinenza, e che peraltro si realizzano anche con articoli del codice assai più antichi.
Recentissimo il caso del governatore campano Vincenzo De Luca, accusato diciotto anni fa di abuso d’ufficio, falso e associazione a delinquere per essersi battuto per il riconoscimento della cassa integrazione per gli operai della Ideal Standard e per la riconversione della fabbrica chiusa in un parco che poi non venne costruito. Due giorni fa il pm ha chiesto, al termine del dibattimento, durato otto (8) anni, la sua assoluzione “perché il fatto non sussiste”, sostenendo nella requisitoria che quella riconversione poteva essere sicuramente discussa ma non in tribunale, perché non c’era nulla di penalmente rilevante. Il pm, dottore Montemurro, non condusse a suo tempo quell’indagine e fa decisamente impressione pensare che i pm dell’epoca avevano chiesto l’arresto dell’indagato, peraltro negato dal gip. Ma fa ancora più impressione pensare che, sulla base di quell’accusa, la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, aveva inserito l’allora candidato alla presidenza della regione nell’elenco degli “invotabili”. Gli elettori non tennero in minimo conto l’editto bindiano e De Luca fu trionfalmente eletto, ma l’esempio vale a dimostrare come, nelle crisi politiche, il cosiddetto populismo giudiziario, in quel caso fortunatamente senza popolo, trovi sponde anche nelle istituzioni che ne sono il bersaglio.
Il governatore campano Vincenzo De Luca
storia di una metamorfosi