Pierluigi Bersani e Massimo D'Alema (foto LaPresse)

Riforme, trivelle, elezioni a Milano. C'è un piano per far cadere Renzi?

Redazione
Le mosse della minoranza pd, tra sogno e realtà: dalla sconfitta di Sala a Milano a giugno, al referendum di domenica sulle trivelle, alla valanga del referendum confermativo a ottobre sulle riforme costituzionali, la madre di tutte le battaglie renziane, perché, come ha detto il presidente del Consiglio, “se non passa mi dimetto”.

Roma. Il gusto della vendetta, il sogno della rivalsa, il sapore di quella parolina, “scissione”, che Bersani respinge – perché mai nella fronda a Renzi bisogna superare la cosiddetta “soglia Civati” – e che invece  D’Alema ancora accarezza, ma da solo, o quasi, nel silenzio e nella solitudine della fondazione ItalianiEuropei, inesausto tessitore di trame e piani strategici forse troppo intelligenti e perfetti per poter davvero funzionare quando applicati alla mobile realtà della politica. E infatti non è D’Alema il regista, l’accordatore dei mille strumenti a fiato che adesso hanno ripreso a suonare, ma con accortezza, nei rivoli della minoranza Pd, divisa, al suo interno litigiosa, un cosmo che ritrova tuttavia una parvenza di senso comune intorno all’immagine d’una possibile riconquista del partito che passa dalla sconfitta di Beppe Sala a Milano (a giugno), dal referendum di domenica sulle trivelle, per farsi poi valanga ad ottobre quando si voterà il referendum confermativo, quello sulle riforme istituzionali, la madre di tutte le battaglie renziane, perché, come ha detto il presidente del Consiglio, “se non passa mi dimetto”.

 

Ma è certo difficile distinguere il sogno dalla realtà, persino per gli uomini della minoranza: c’è Roberto Speranza che sulle trivelle ha criticato la scelta astensionista del Pd renziano, come ha fatto pure Pier Luigi Bersani, e c’è poi Miguel Gotor, il senatore della sinistra, che senza difficoltà già allude a un voto contrario persino al referendum sulle riforme istituzionali, quella chiamata alle urne che Renzi intende trasformare in un voto tra “l’Italia del cambiamento” e “l’Italia della palude”, o con me o contro di me. Ed è tutto un groviglio di posizioni critiche, di sfumature, di orizzonti polemici i cui effetti non sono sempre calcolati al millimetro come sostiene talvolta Gianni Cuperlo, e che descrivono un cortocircuito di prospettive interno alle varie anime della minoranza del Pd: perché se a Bersani non sfugge il rischio di ritrovarsi quasi inconsapevolmente fuori dal partito, il suo gruppo di giovani leoni, invece, compresi forse alcuni rottamati di rango apparentemente lontani dal proscenio (vedi Enrico Letta e Romano Prodi), pare coltivi la segreta speranza di rovesciare il tiranno Renzi, forse persino il governo, e chi se ne importa delle conseguenze, fossero anche il voto anticipato con una legge elettorale proporzionale (garanzia di ingovernabilità, ma anche di massima rappresentanza parlamentare per forze politiche dalle percentuali rasoterra).

 

D’altra parte se il referendum sulle trivelle dovesse andar male per Renzi e se poi, a giugno, il super candidato renziano Beppe Sala dovesse – ma per ora non sembra – finire malamente battuto da Stefano Parisi e dal centrodestra, allora ci sarebbero lo spazio e l’occasione forse irripetibili di risollevare la testa e tentare la spallata contro l’usurpatore di Firenze. Ed è un’idea che nel silenzio degli incontri riservati, delle chiacchiere da corridoio, e dei pranzi intorno Montecitorio, accende la fantasia ed accelera il metabolismo della sinistra democratica, ma che pure trova una saldissima diga in Cuperlo e in Bersani, loro che nulla perdonano a Renzi, ma che pure sono intimamente persuasi di un validissimo adagio: l’unica scissione buona è quella che si minaccia e non si fa mai.