Matteo Renzi (foto LaPresse)

C'è una piena che può travolgere Renzi

Giuliano Ferrara
Le direzioni ammaestrate non bastano. C’è un progetto che rischia di impantanarsi. Giudici, corporazioni, insinuazioni non si sconfiggono senza una formula più radicale che superi lo schema del partito di sinistra.

Quando Renzi ci diede dentro e cominciò la cavalcata per il governo sconquassando il suo partito in redazione ci domandavamo: ma questo boy scout di talento guerriero non è che alla fine sfascia tutto? In un paese gerontocratico, inerte, infecondo, voleva la rivoluzione generazionale, e la perseguiva per strappi e rottamazioni. In un paese dotato di un establishment debole e superbo, con un sistema dei media compromesso da decenni di invasione della politica da parte di giornali telegiornali e procure della Repubblica, voleva fare il Marchionne della politica, coordinandosi con un manager che per fare quello che ha fatto, bene o male o benino o maluccio, fu costretto a liquidare la Confindustria, trasferire armi e bagagli la ditta a Detroit, vendere i giornali e comprarsene uno di base londinese (l’Economist). Un partito che perdeva regolarmente battaglie faziose, ma sempre tenendo alte le sue bandiere, postcomunismo e cattolicesimo democratico (che è un’ideologia prima che una componente politica), avrebbe mai potuto sopportare l’insediamento effettivo e duraturo di un principe di tipo nuovo, che parlava la lingua del riformismo capitalistico, e che attribuiva il carattere di cambiamenti di sinistra a misure da sempre rigettate dal sindacalismo classista e corporativo, con la sua grande rete che aveva fatto le sue prove generali all’epoca di Cofferati e dell’articolo 18? Eravamo convinti che la valanga di Renzi spazzava via molta immondizia, che il fondo delle sue intuizioni era legittimo, adatto a trovare la strada di un’uscita dalla crisi immobilistica e sottoproduttivistica del paese, ma sentivamo che lo strattone era violento e le resistenze sarebbero cresciute via via, fino a un punto di rottura e di non ritorno.
Ora c’è Piercamillo Davigo a un passo dall’Anm e una nuova offensiva dei pm. C’è un diluvio annunciato di indagini reportage, una via l’altra. C’è Magistratura Democratica vicina ai comitati anti trivellazioni, insieme con Massimo D’Alema e monsignor Nunzio Galantino, e si cerca la strada del ko attraverso la distruzione di una ministra debole che ha commesso atti di debolezza. Ora c’è, e nasce dall’interno della cosiddetta sinistra, la denigrazione dei candidati, la dissociazione dal voto per i sindaci, l’attacco personale al capo autoritario che non ha statura di leader nazionale, l’insinuazione continua sull’intreccio tra affari, governo e fund raising, con la messa in stato d’accusa del personale renziano che costituisce la rete di protezione e di azione dell’outsider. Sono tutte cose già viste in altri paesaggi. Craxi non andava bene perché non era il referente di una coalizione corporativa e d’establishment, pur avendo una parte della tradizione socialista nella sua caratura di uomo di partito e dei partiti, e tanto non andava bene che i giornali padronali gli rimproverarono perfino il decreto che salvò l’economia italiana dalla scala mobile dei salari e sradicò l’inflazione a due cifre. Berlusconi non andava bene perché era “di plastica”, semplice dileggio e fatale sottovalutazione di un ventennio di storia che stava arrivando. Non andavano bene nemmeno i Prodi e i D’Alema, che pretendevano una qualche autonomia della politica e addirittura praticavano terreni di partito della nazione e della riforma costituzionale attraverso la ricerca di intese riformatrici che furono debitamente definite “piduiste”.

 

Ernesto Galli della Loggia, che nel Corriere ha suonato la fanfara del manifesto contro Renzi, in vista di una futura spallata, ha attaccato il premier con la solita intonazione snob: non legge i suoi stessi libri, non va al concerto come fanno i suoi pari, non invita a cena accademici e intellettuali o guru dell’establishment, ai quali preferisce manager e finanzieri che intanto smantellano le associazioni padronali e la vecchia contrattazione sindacale e il vecchio bancocentrismo malato. Ma non c’è più gusto a polemizzare, il gioco una volta era coperto, e toccava scoprirlo, oggi si muove sul filo dell’evidenza, non sono poteri né deboli né forti, sono i modi di essere strutturali, gli unici disponibili, di una vecchia classe dirigente, che fa sempre prima di tutto capolino dai giornali e in particolare dal giornale decano.

 

Più interessante domandarsi: Renzi ha capito che sta sfasciando tutto sulla base non colossale delle primarie di partito, al risultato delle quali è opposta ormai una ribellione sistematica che arriva alla desolidarizzazione nel voto e a comportamenti centrifughi, dopo molti abbandoni? Ha capito che il 40 per cento alle europee è considerato base fragile e reversibile, che il referendum sulla riforma costituzionale è già divenuto un pretesto di esercitazioni oratorie sulla mutazione genetica della democrazia, che hanno nella lotta a Craxi e a Berlusconi i loro modelli di riferimento? Ha capito che la partita delle città, delle regioni e dei sindaci è, in simili condizioni, una partita largamente compromessa? Insomma: ha capito che dopo l’attivismo per la ripartenza, in condizioni complicate e franose di crescita economica da ogni parte minacciata, il suo progetto si va impantanando?

 

Lo schema d’altra parte è semplice. Se distruggi la sinistra com’era e attui un’impresa di sostituzione, di rimpiazzo di uomini e idee, poi bisogna che tu indichi e pratichi un nuovo corso, che tu adatti la leadership politica alle nuove condizioni, bisogna che il partito o movimento che hai conquistato, e di cui vuoi riformulare l’identità nel paese e nelle istituzioni, prenda una strada idonea alle nuove circostanze che la tua stessa azione determina: non è che puoi pensare di cavartela con le direzioni ammaestrate del Pd, la tolleranza verso abbandoni e insulti e desolidarizzazioni, la governabilità parlamentare con l’aiuto dei volenterosi. Renzi può continuare con questo gioco onorevole di rimpallo per cui lui è più di sinistra degli altri, lui è più giovane degli altri, lui è garanzia di vittoria nelle urne, lui non ha alternative. D’accordo. In mezzo al guado uno lotta per arrivare all’altra sponda. Gli può anche riuscire di farlo. Ma la piena comincia  a essere talmente minacciosa che forse il guado sarà possibile solo con il superamento delle condizioni di partenza, cioè il paradosso di un partito della sinistra che genera un governo riformatore capace di politiche liberali, e con l’approdo a una nuova formula più radicale. L’idea che a questo segretario-presidente del Pd, con il suo giro strettissimo di collaboratori, e la sua rete a maglie larghe di alleati, lascino fare la prova della ripresa, e di un secondo mandato alla guida del governo, fino al ricambio nel 2018, ha oggi qualcosa di opaco. Quella che Mauro chiama “la rosa appassita” del riformismo ha forse bisogno di un rilancio con il concime aspro di un nuovo radicalismo nei programmi e nelle forme politiche utili a sostenerli. Renzi non può fare come Marchionne ovvero sciogliere Confindustria, liquidare i sindacati via referendum, trasferirsi all’estero e leggere solo l’Economist. Che altro può fare? Questo comincia a essere il suo problema.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.