Matteo Renzi (foto LaPresse)

Nuova cartina del renzismo

Claudio Cerasa
Numeri, logica e riforme possibili (occhio alle pensioni). Come funziona il metodo Renzi?  I nomi che contano nella squadra di Palazzo Chigi e quelli che pesano nel mondo Padoan.

Nel bene e nel male, non è facile giudicare il governo attraverso i numeri e non è facile definire con ragionevole certezza se la progressiva ma lenta uscita dell’Italia dalla crisi economica dipenda esclusivamente da fattori esterni o dipenda in buona misura anche da fattori interni, ovvero dalle riforme renziane (Jobs Act in primis). I numeri ci dicono che qualcosa oggettivamente si sta smuovendo. L’Istat ha certificato per il 2015 un pil in crescita dello 0,8 per cento, un decimale sotto lo 0,9 stimato a novembre dal governo, tre decimali sopra lo 0,6 iniziale (piccoli numeri che diventano significativi se paragonati ai numeri degli scorsi anni: nel 2013, il governo Letta stimò un meno 1,3, e alla fine fu meno 1,7; nel 2012, il governo Monti stimò un meno 1,2, e alla fine fu meno 2,3). Emettere ululati di vittoria oggi fa ovviamente sorridere e a meno di non voler dare giudizi affrettati sarà necessario ancora del tempo per capire quanto peserà sulla ripresa economica il metodo Renzi (e si sa che si possono fare anche le riforme del lavoro migliori del mondo, ma senza crescita, e senza riforme strutturali, alla fine l’occupazione non tornerà mai a salire in modo significativo). Ciò che già oggi si può però descrivere in modo definitivo è un altro aspetto del metodo. E quel metodo riguarda il meccanismo attraverso il quale il presidente del Consiglio tenterà di dare, da qui alla fine della legislatura, una frustata al cavallo dell’economia (è dura). Le due braccia del renzismo si trovano una a Palazzo Chigi e una al Mef, e la scommessa dei prossimi mesi, per il governo, sarà quella di far coesistere la macchina imponente messa in piedi dal nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini, con quella, già rodata da tempo, messa in piedi dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Le due macchine sono molto diverse. Rappresentano due realtà complementari ma assai distanti l’una dall’altra. E su alcuni temi è evidente che vi sarà una sovrapposizione che porterà ad accentrare a Palazzo Chigi alcuni dossier che in teoria dovrebbero nascere e maturare all’interno del ministero dell’Economia. Anche Silvio Berlusconi, durante i suoi governi, provò spesso ad accentrare a Palazzo Chigi la cabina di politica economica ma la grande differenza tra il renzismo e il berlusconismo è questa: mentre Berlusconi ha avuto al suo fianco ministri dell’Economia complementari ma vogliosi di giocare una partita autonoma e indipendente all’interno della politica (Tremonti, do you know?), Renzi ha al suo fianco un ministro dell’Economia che è, sì, ambizioso ma che ha ormai accettato il fatto che la politica economica passa prima da Palazzo Chigi che dal Mef. E lo ha accettato a tal punto da essere arrivato a cambiare idea su alcuni temi cruciali (vedi le tasse sulla prima casa, che il Padoan non ministro ha sempre considerato sacrosante). Non si sa se lo spirito collaborativo di Padoan – e l’essersi rassegnato alla constatazione che nell’èra renziana il Mef sia più importante nei rapporti con l’Europa che nei rapporti con le tecnostrutture italiane – dipenda dal fatto che il ministro dell’Economia ambisca dopo l’esperienza nel governo a un ruolo più tecnico che politico (Bankitalia, Eurogruppo?). Quel che si sa è che finora la coabitazione tra l’attuale ministro dell’Economia (Padoan) e il possibile futuro ministro dell’Economia (Nannicini) ha funzionato. Nell’attesa di capire che risultati porterà (è dura) può essere interessante raccontare con completezza chi sono gli uomini e le donne scelte da Nannicini e Padoan per provare a far marciare il renzismo in campo economico. E ogni nome rappresenta in qualche modo una chiave per capire quale potrà essere la direzione del premier nei prossimi due anni. Guardate con attenzione questa foto.

 




La foto che trovate in questa pagina rappresenta la geografia del renzismo in campo economico. Alcuni nomi li avete già letti la scorsa settimana su questo giornale, altri li trovate per la prima volta. Messi in fila uno dopo l’altro possono essere utili per capire come funziona, nel bene e nel male, la macchina del renzismo.

 

La squadra che accompagna il ministro Padoan in tutte le sue decisioni più importanti è composta, oltre che naturalmente dai due viceministri più pesanti (Morando e Casero, con Zanetti più defilato), da sette nomi centrali che compongono la galassia che gravita attorno al responsabile del Tesoro. Il primo nome, molto in ascesa, è quello di  Federico Giammusso, ex Ocse, oggi consigliere economico per la macroeconomia e gli affari internazionali. Giammusso è per Padoan il canale di collegamento non solo con la Commissione europea ma anche con Palazzo Chigi (è lui che parla al telefono con Nannicini) e il ministero delle Riforme, guidato da Maria Elena Boschi. Accanto a Giammusso, le decisioni che contano vengono sempre prese da Padoan alla presenza di Daniele Franco, ragioniere generale dello Stato; Roberto Garofoli, consigliere di stato e capo di gabinetto del ministro; Vincenzo La Via, direttore generale, molto ascoltato da Padoan sui dossier che riguardano le società partecipate dallo stato; Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica, che ha spesso un ruolo di raccordo con il Mise; Riccardo Barbieri, capo economista del Tesoro, al quale Padoan si affida regolarmente per la stesura di simulazioni per la programmazione economica del ministero; Fabrizia Lapecorella, direttore generale delle Finanze; Vieri Ceriani, che ha sempre un peso importante in tutte le partite che riguardano gli affari fiscali.

 

E dall’altra parte? La squadra di Palazzo Chigi con cui il blocco del Mef dovrà fare i conti per i prossimi due anni sulle più importanti partite economiche ha oggi una sua conformazione quasi definitiva e la struttura scelta da Nannicini per portare fieno nella cascina del renzismo è composta da due grandi cerchi. Nel primo cerchio vi sono i collaboratori full time. Nel secondo vi sono i collaboratori part time.

 

Nel primo cerchio vi sono Luigi Marattin (classe 1979), Stefano Firpo (classe 1973), Marco Simoni (classe 1974), Marco Leonardi (classe 1972), Vincenzo Galasso (classe 1967), Stefano Gagliarducci (classe 1976), Sara Formai (classe 1979), Raffaella Santoro (classe 1962), Stefano Manestra (classe 1964), più due full time junior come Filippo Teoldi (classe 1989) e Michelangelo Quaglia (classe 1989). A questo elenco mancano ancora due nomi e saranno due donne. Una verrà dalla Ragioneria di stato, una dal Mef. Sia per quanto riguarda la prima sia per quanto riguarda la seconda cerchia il criterio di selezione, almeno nelle intenzioni, rispecchia un’idea renziana condivisa dallo stesso Nannicini (classe 1973): zero, o quasi, collaboratori con un passato nei ministeri (tranne Firpo, nessun collaboratore di prima fascia ha mai lavorato in un ministero) e ricerca di una classe dirigente capace di rappresentare una nuova generazione di economisti con buoni contatti nel mondo dei mercati internazionali (il più anziano della squadra ha 53 anni, il più giovane 27).

 

Lo stesso criterio, tranne qualche eccezione, è stato seguito per la formazione della seconda cerchia di collaboratori. I primi nomi erano più o meno noti, questi lo sono meno. Dall’Antitrust arriva Chiara Fumagalli (classe 1969). Dalla Luiss arriva Pietro Reichlin, economista, classe 1956, figlio di Alfredo Reichlin. Da Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) arriva Stefano Sacchi, classe 1971, esperto di reddito minimo. Dall’Inps arriva, come statistico, Stefano Patriarca, classe 1951, esperto di pensioni, come Tiziano Treu, ex ministro, classe 1939, il più anziano del gruppo. Dall’università di Milano arriva Gabriele Bottino, classe 1970, amministrativista. L’esperto di lavoro del gruppo è il professore di Diritto del lavoro alla Bocconi, Maurizio Del Conte. Il penalista scelto da Nannicini si chiama Giacomo Lunghini. L’esperto di Iva del gruppo è Pierpaolo Maspes, fiscalista, ex dipartimento delle politiche fiscali. Tra gli esperti di fisco, Nannicini ha inserito nel suo team anche altri nomi: Andrea Tavecchio, classe 1969, commercialista, socio promotore della Tavecchio & Associati, editore de Linkiesta, dal cui think tank Nannicini ha molto attinto per la scelta della sua squadra; Paola Camagni, classe 1970, sindaco in quota Mef nell’Eni, docente a contratto alla Bocconi in Diritto tributario e reddito d’impresa; Vania Petrella, avvocato, partner dello studio legale Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP; Alberto Trabucchi, esperto di fisco internazionale; Emma Galli, classe 1964, professore associato di Scienza delle finanze alla Sapienza di Roma. Fatta la squadra – alla quale non fa riferimento invece Yoram Gutgeld, commissario per la revisione della spesa, che risponde direttamente a Renzi – ora sarebbe utile capire su quali fronti si muoverà nei prossimi mesi il mondo renziano, e qui il ragionamento è più complesso.

 

Il calendario del 2016, come è noto, prevede due appuntamenti elettorali importanti. Il primo è quello di giugno, e riguarda le amministrative. Il secondo è quello di ottobre, e riguarda il referendum. All’inizio del nostro ragionamento ricordavamo che senza riforme strutturali sarà molto difficile per Renzi (impossibile) riuscire non solo a smuovere la crescita di qualche altro zero virgola ma anche far ripartire in modo deciso l’occupazione. Nonostante questo l’impressione che si ha studiando le mosse del presidente del Consiglio è che da qui alla fine dell’anno l’intenzione di Renzi sia quella di lavorare più sulla manutenzione che, diciamo così, sulla rivoluzione. Dunque niente spending review. Niente riforma choc della giustizia. Niente provvedimenti choc sulla Pubblica amministrazione. Niente traumi sul ddl Concorrenza. E tentativo costante di descrivere quello che il governo “ha già fatto” e mettere in pratica le più importanti riforme in cantiere. La squadra economica di Palazzo Chigi lavorerà nei prossimi mesi per rendere operativi i provvedimenti sugli autonomi (“il Jobs Act delle partite Iva), i provvedimenti legati al così detto (sic) “ddl Povertà” (comprensivo dei 500 euro ai diciotteni) e i provvedimenti legati alla contrattazione aziendale. Su quest’ultimo punto, a Palazzo Chigi Renzi e Nannicini considerano centrale esportare in modo definitivo il modello Marchionne, trasformando il metodo Pomigliano nella nuova stella polare dei rapporti tra imprenditoria, stato e lavoratori (l’obiettivo della squadra renziana è quello di riuscire ad arrivare entro la fine dell’anno alla stesura di una legge che sappia legare in qualche modo il salario alla produttività).

 

Molti di questi provvedimenti, come detto, sono già incardinati in Parlamento. Ma da qui ai prossimi mesi c’è una carta che Renzi proverà a tirar fuori dalla manica, poco prima del referendum. La carta è questa: la riforma delle pensioni, comprensiva di clausola di flessibilità e fine della questione esodati. La riforma, oltre che creare una sintonia anche elettorale con una fascia di elettorato che Renzi ha tutto l’interesse a intercettare (i pensionati), darebbe la possibilità a chi vuole andare in pensione in anticipo di avere in anticipo quella stessa pensione, a condizione di vedersi ridotta la quota disponibile di pensione. In altre parole, chi ha un sistema retributivo e vuole andare in pensione prima del tempo può farsi ricalcolare la pensione con il sistema contributivo. In sintesi estrema, se puoi andare in pensione a 67 anni lo stato ti dice vai pure a 63 anni con una pensione più bassa; tutto quello che lo stato pagherà tra i 63 e i 67 anni sarà un costo in più; dopo di che una volta arrivati ai 67 anni lo stato ci guadagnerà (e intanto avrà favorito anche il ricambio generazionale).

 

[**Video_box_2**]Lo scorso anno Renzi provò a mettere in campo l’idea ma il costo dell’operazione era troppo alto (circa sette miliardi). La squadra degli economisti di Renzi sta lavorando a una proposta alternativa, non ancora definita, che potrebbe portare il costo della riforma a circa 4 miliardi. Servirà o non servirà? Sarà possibile alla fine di quest’anno trarre un giudizio più compiuto sull’effetto Renzi? Si riuscirà a trovare lo spazio per una riforma fiscale capace – come chiede Confindustria, a cui la squadra degli economisti renziana è sensibile – di alleggerire le imprese? Molte delle risposte a queste domande si trovano in uno scritto che giusto un anno fa offrì Nannicini intervenendo sul nostro giornale. “Molti dei nostri interventi produrranno effetti sulla crescita potenziale soltanto nel medio periodo. Ma è lì che ci giochiamo tutto: su quella che gli economisti chiamano crescita “intensiva”, l’unica sostenibile a lungo perché basata su un aumento della produttività e della competitività. Senza contare che, al di là delle misure congiunturali che potremo adottare, l’Italia ha anche due risorse inutilizzate per creare crescita estensiva nel breve periodo, se solo si aggredissero i nodi della sotto-occupazione femminile e della sotto-utilizzazione delle risorse nel Mezzogiorno… Nel futuro servirà una misura strutturale che riduca il cuneo contributivo, per non lasciare il corpo dell’economia debilitato quando la droga (benefica) degli sgravi verrà superata. Per esempio, tanto per fare un’ipotesi puramente indicativa e del tutto personale, potrebbe servire una riduzione strutturale del cuneo contributivo sul tempo indeterminato a tutele crescenti di 6 punti percentuali, 3 a carico del datore e 3 a carico del lavoratore. Favorendo nello stesso tempo l’investimento dei 3 punti a carico del lavoratore in previdenza complementare, in modo che i tassi di sostituzione pensionistici non risentano di questo parziale opting out dal primo pilastro. Se non si riduce il risparmio forzoso nel primo pilastro favorendo lo sviluppo del secondo, è difficile pensare di poter ridurre il cuneo contributivo in maniera strutturale”. Economia e Renzi. Il metodo non si sa se funzionerà. Ma per capire chi sono i protagonisti del metodo Renzi tocca ritagliare lo schemino in questa pagina. E poi si vedrà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.