Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Perché Mattarella vede il voto nel 2017

Claudio Cerasa
Il capo dello stato dubita che Renzi resisterà alla tentazione di anticipare le elezioni dopo il referendum costituzionale. Indizi, smentite, incroci con Germania e Francia e quel pretesto possibile per replicare il metodo Tsipras.

La politica, come si sa, non si fa mai con i “se” e con i “ma”, e immaginare oggi quello che potrebbe capitare tra un anno rischia di essere un’operazione scivolosa e persino spericolata, considerando anche le molte variabili non controllabili che rendono il 2016 un anno del tutto imprevedibile: la ripresa economica in bilico, il terrorismo, il referendum, l’intervento in Libia, il rapporto con l’Europa e se vogliamo anche le elezioni amministrative. Nonostante questo, nonostante la difficoltà di immaginare quello che succederà nei prossimi mesi nel nostro paese, esiste un tema cruciale che riguarda il futuro del governo e che è legato a una domanda precisa che da qualche tempo è diventata centrale non solo nel chiacchiericcio parlamentare ma anche nei colloqui privati del presidente della Repubblica. La domanda è questa: Renzi riuscirà a resistere alla tentazione di andare al voto anticipato dopo il possibile successo del referendum sulla riforma costituzionale?

 

Osservando con attenzione le mosse recenti del presidente del Consiglio, Sergio Mattarella ha maturato una convinzione che ha trasmesso ai suoi collaboratori e che suona più o meno così: se Renzi vincerà il referendum, troverà nel giro di poco tempo un qualsiasi pretesto per far precipitare il governo e prepararsi così a elezioni anticipate. Il ragionamento del capo dello stato nasce sulla base di una riflessione in cui c’entra non solo l’inerzia naturale della politica ma anche l’equilibrio potenzialmente complicato che si andrà a creare in Europa durante l’anno in corso. Nel 2017 andranno al voto sia la Germania sia la Francia, e se già oggi l’Italia sta faticando per aver riconosciuta dalla Commissione europea una flessibilità non superiore allo 0,2 per cento del pil, non è difficile immaginare quanto la situazione si potrebbe complicare il prossimo anno, quando entrerà in vigore il pareggio di bilancio previsto dal Fiscal compact e quando il governo sarà costretto a realizzare una manovra il cui deficit dovrà essere di un punto di pil inferiore rispetto a quello di oggi (1,1 per cento, significherebbe circa 20 miliardi di euro in meno rispetto al 2016, senza considerare poi che nel 2017 il governo dovrà trovare un modo per anestetizzare le clausole di salvaguardia sull’Iva e sulle accise che da sole valgono circa 20 miliardi di euro). Una Commissione rigida, influenzata dalle campagne elettorali tedesca e francese, potrebbe rendere dunque complicato per Renzi realizzare, dopo il referendum, una manovra espansiva con cui tagliare le tasse (il presidente del Consiglio ha promesso che nel 2017 porterà l’Ires al 24 per cento) e in mancanza della flessibilità necessaria Renzi avrebbe una ragione in più per andare all’incasso dei voti conquistati al referendum, trasformando l’approvazione della legge di Stabilità nell’ultimo atto del governo e impostando una campagna elettorale tosta contro un’Europa intrappolata negli zero virgola del Fiscal compact.

 

[**Video_box_2**]Questo dunque per quanto riguarda l’aspetto economico. Ma accanto a questo punto ve n’è un altro altrettanto cruciale che riguarda il naturale corso della politica. A ridosso delle amministrative, come si sa, Matteo Renzi metterà in piedi una serie di comitati referendari, sparpagliati in tutta Italia, gestiti dal brand Leopolda, e in caso di successo al referendum avere una macchina elettorale già rodata e ben avviata rispetto agli avversari sarà un elemento che renderà oggettivamente più appetibile l’idea di anticipare il voto, anche per cogliere impreparati i possibili rivali. Inoltre, utilizzare il metodo Tsipras, ovvero capitalizzare alle elezioni il consenso ottenuto al referendum, avrebbe come effetto, tra le altre cose, quello di andare al voto senza passare per il Congresso del Pd, previsto nel novembre 2017, e così facendo sulla formazione delle liste elettorali peserebbe l’attuale equilibrio presente nel partito, in cui la minoranza dem, come è noto, ha briciole o poco più. La versione ufficiale del governo, sul punto, è articolata in due riflessioni. La prima è che il prossimo anno, flessibilità o non flessibilità, sarà molto complicato, se non impossibile, andare al voto perché l’Italia ospiterà il G7 con i grandi del mondo e Renzi avrà un’agenda incompatibile con una campagna elettorale. La seconda è che una maggioranza solida come questa, terrorizzata dall’idea di andare al voto (chissà quanti saranno confermati in Parlamento) e disposta dunque a votare sostanzialmente tutto quello che chiede Renzi, sarà difficile da trovare anche nella prossima legislatura, nonostante la nuova legge elettorale (che entrerà in vigore dal primo luglio 2016) permetta alla lista che vincerà le elezioni di avere la maggioranza assoluta alla Camera. La versione ufficiale è questa ma è una versione che, anche a detta dei renziani, potrebbe tenere a una condizione: che l’economia, nel corso del 2016, registri delle buone performance. In caso contrario, se la crescita dovesse rallentare e se le misure del governo non dovessero contribuire a dare uno slancio effettivo al paese, la versione ufficiale cambierebbe. E a quel punto replicare il metodo Tsipras resterebbe forse l’unica arma utile per non farsi logorare e  capitalizzare alle elezioni il consenso (possibile) ottenuto al referendum. Immaginare il futuro è ovviamente difficile ma la notizia c’è e non si può non registrare che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è convinto che la campagna elettorale per il referendum sia destinata a trasformarsi nell’antipasto della campagna elettorale per le politiche. E se Renzi deciderà di far cadere il suo governo, il presidente della Repubblica è già oggi consapevole di non avere armi per impedire al segretario del Pd di andare alle elezioni e tentare, come dire, l’effetto Renzakis.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.