Da Carrai a Calenda, passando per il Consiglio di Stato. Il (fisiologico) ritorno del Principe
Le scelte (da alcuni criticate) di Renzi e quel dibattito internazionale sul rafforzamento in corso del potere esecutivo. Dopo la fase di depoliticizzazione avviata dal Governo Monti e proseguita dalle larghe intese, il premier fiorentino ha imposto una ripoliticizzazione della democrazia italiana ed ha inaugurato uno stile presidenziale.
Se Silvio Berlusconi aveva avviato il processo di trasformazione della democrazia italiana in quella che il politologo Bernard Manin ha chiamato “democrazia del pubblico” per indicare il rapporto diretto e televisivo tra leader ed elettori, Matteo Renzi sta completando quel percorso portando il sistema politico italiano verso la “democrazia del leader”, come recita il titolo dell’ultimo libro del professor Mauro Calise. Dopo la fase di depoliticizzazione avviata dal Governo Monti e proseguita dalle larghe intese, il premier fiorentino ha imposto una ripoliticizzazione della democrazia italiana ed ha inaugurato uno stile presidenziale che negli ultimi giorni si è imposto con tutta evidenza perché Renzi ha rimpiazzato un diplomatico di carriera alle cancellerie europee con il viceministro Carlo Calenda, è intervenuto nella nomina dei vertici del Consiglio di Stato rompendo una prassi di non interferenza tra poteri costituzionali, ha cercato un ruolo amministrativo all’imprenditore amico Marco Carrai per occuparsi di delicate tematiche d’intelligence. La centralità del potere esecutivo nel dibattito politico è divenuta sempre più evidente negli ultimi mesi: i consiglieri del Premier hanno acquisito influenza e visibilità, le decisioni strategiche come quelle sulle municipalizzate sono state spostate a Palazzo Chigi, il partito democratico è stato licenziato e marginalizzato dalle iniziative governative. A questi episodi si aggiungono la nuova legge elettorale e la probabile fine del bicameralismo paritario con un ulteriore, e necessario, rafforzamento del capo dell’esecutivo. Renzi sta imprimendo propulsione ad un ruolo, quello del presidente del Consiglio, che in Italia non ha mai avuto il peso istituzionale che gli spettava imponendo il primato del primo ministro. Un processo in linea con il ritorno del Principe, del capo carismatico weberiano che permea l’intera politica occidentale.
Una tesi evidenziata dal giurista americano E.A. Posner che nel 2013 ha pubblicato Executive Unbound, libro in cui sostiene l’inevitabilità del rafforzamento del potere esecutivo come risposta all’affermazione della media logic, della disintermediazione e della fine dei partiti organizzati. Una teoria che poteva già rintracciarsi nel pensiero di Carl Schmitt il quale, fin dalla crisi della Repubblica di Weimar, considerava il ritmo dell’economia globalizzata il motore di un cambiamento sociale volto a creare regimi con esecutivo accentrato che avrebbero eroso sostanzialmente il parlamentarismo. Un processo di transizione inevitabile che si manifesta anche nel sistema italiano attraverso un esplicito rafforzamento del potere del premier come quello che stiamo vivendo negli ultimi mesi. Una tendenza che, per la verità, in Italia arriva con qualche anno di ritardo se si considera che nel mondo anglo-americano si è iniziato a studiare la “presidenzializzazione personale” già nei primi anni duemila quando Tony Blair e George W. Bush accentrarono leadership, risorse e strumenti giuridici per garantirsi un controllo diretto sulle proprie iniziative di governo.
Da questa trasformazione discendono due conseguenze istituzionali: da un lato un accresciuto controllo politico della burocrazia attraverso il controllo degli obiettivi, le misurazioni delle performance, l’aumento del potere di nomina del capo del governo e dall’altro la marginalizzazione dei parlamenti a luoghi di dibattito e valutazioni di secondo piano. Non solo, ma la tradizionale separazione dei tre poteri di matrice liberale sta sprofondando in una crisi indotta dall’affermazione dei new media e dal peso crescente delle corti a livello nazionale ed internazionale. I primi favoriscono la verticalizzazione del potere e l’accentramento della leadership, le seconde costringono parlamenti e burocrazie a smussare e veder modificate le proprie decisioni sia a livello nazionale che internazionale diminuendone radicalmente il potere. In questo modo, attraverso canali democratici legittimi ma profondamente trasformati le leadership a la Renzi modificano gli elementi costitutivi della politica e delle istituzioni. Tuttavia, non è necessario lanciare allarmi democratici: la personalizzazione e il rafforzamento dell’esecutivo non è che la nuova forma della politica contemporanea ed il ritorno del Principe è la risposta al bisogno decisionale indotto dalle crescenti aspettative dei cittadini.
[**Video_box_2**]Ogni eventuale pericolo di deriva autoritaria può essere contenuto dalla competizione politica, dal pluralismo mediatico e dal controllo dell’opinione pubblica più che attraverso i paletti della legislazione. E se c’è un problema che l’esecutivo “senza confini" si trova a fronteggiare è proprio la capacità di soddisfare le enormi aspettative di cittadini abituati sempre più all’immediatezza di risposte fornite dal libero mercato e dall’evoluzione tecnologica. E’ in questi interstizi che si misura la capacità politica, d’utilizzar il potere conquistato, del leader e di portare a termine la propria missione di cambiamento. Allo stesso tempo, questa traversata sui carboni ardenti imposta al capo carismatico dalla politica contemporanea e dalle insofferenze degli elettori è, nei paesi occidentali, la migliore assicurazione sulla vita per le democrazie liberali perché permette la conservazione del proprio principio primo: il posto vuoto. Se un leader fallisce, si cambia, si libera il trono, se ne sceglie uno nuovo. Senza drammi, violenze e piagnistei né presunti scivolamenti autoritari. Così sia, anche per Matteo Renzi.
Antifascismo per definizione
Parlare di patria è paccottiglia nostalgica e un po' fascista? Non proprio
cortocircuiti Nimby