Roma, nun fa' la stupida domani

Redazione
Efficienza, non moralismo. Privatizzazioni, non mancette. Investitori stranieri e coraggio di licenziare. Idee a ruota libera per governare una città dove nessuno si vuole candidare

Misure fiscali straordinarie, e coraggio di licenziare. La finestra per cambiare la città c’è

 

Io penso che in generale abbiamo bisogno di avere un'iniezione di sana e selvaggia ambizione per quanto riguarda la gestione e il futuro della città. L'obiettivo finale deve essere quello di fare di Roma una capitale al livello di Londra e Parigi, una delle città più belle e abitabili, visitabili del mondo. La Capitale dell'Italia lo merita con il suo patrimonio di cultura, bellezza, storia e arte. Certo visto il punto di partenza questa meta sembra un'utopia, ma io penso che dietro ogni singola azione per migliorare la situazione debba esistere – forte e cattiva – questa determinazione. Passare sopra tutto e tutti, abbattere i muri dei piccoli pizzicagnoli, dei meschini centri di interesse, rimettere a zero i così detti diritti guadagnati da chi ha solo il proprio ego come unita di misura. Come proposte concrete vorrei che il nuovo sindaco potesse avere poteri straordinari per fare varie cose. Primo. Potersi circondare dai migliori team, licenziando e mettendo alla porta gli assenteisti, gli svogliati, i menefreghisti e sopratutto i corrotti e i collusi a tutti i livelli: dal vigile di strada al giardiniere fino all’alto funzionario e al dirigente. Secondo. In accordo con il governo poter disporre di misure fiscali straordinarie per la Capitale in grado di attirare investimenti stranieri e capitali privati Italiani e poterli impiegare in restauri, ristrutturazioni, rilanci nell'aerea del patrimonio artistico e in quella delle infrastrutture turistiche (trasporti pubblici fino a hotel) la privatizzazione di funzioni anche fondamentali non deve più essere un tabù.  Terzo. Come azione visibile immediata la possibilità di applicare in maniera forzata la rimozione da tutte le aeree di interesse dei venditori ambulanti, caldarrostai, madonnari, saltimbanchi, spacciatori di falsi prodotti di lusso, paninari. Da inguaribile ottimista vedo una città sul punto di poter ripartire, i primi segni di interesse di investitori stranieri e privati italiani si vedono tutto intorno a noi. Credo che stiamo vivendo un momento importante e una finestra di opportunità che non dobbiamo lasciarci sfuggire. In 18 mesi, per fare solo un piccolo esempio, come Fendi siamo stati in grado a Roma di ristrutturare Palazzo Fendi e di convincere Zuma – ristorante di fama mondiale – a aprire con noi, di finalizzare il restauro completo della Fontana di Trevi, di riaprire al mondo Palazzo della Civiltà Italiana – nostra nuova Sede – e ospitare 17.000 visitatori dal 22 ottobre a oggi. A Roma si può fare tutto questo, se si è sorretti dalla giusta ambizione e dalla volontà vera di cambiare.
Pietro Beccari, amministratore delegato di Fendi

 


 

Non serve collegare i destini della Capitale solo agli eventi straordinari. Come svoltare

 

Può essere un esercizio relativamente facile elencare ciò che serve a Roma perché possa rafforzare il suo naturale ruolo di Capitale di Italia e di importante città europea e mondiale. L’elenco sarebbe lungo e non ci basterebbe lo spazio che ci è stato concesso.

 

Preferisco allora evidenziare ciò che a Roma non serve. Non serve una classe politica che amministra la città con una visione di breve periodo, che insegue le emergenze e che è priva di una visione strategica che va oltre il mandato elettorale. Non serve il clima di incertezza sulle regole e sul rispetto dei diritti. Incertezze queste che allontanano gli investitori e fertilizzano il terreno dove cresce la pianta dell’opacità, della discrezionalità e del malaffare. Non serve collegare i destini della nostra città solo agli eventi straordinari, nella speranza che nel breve volgere di pochi anni, o addirittura di pochi mesi, si possano risolvere situazioni o problemi che affliggono la vita quotidiana di tutti. Non serve cullarsi nel convincimento che Roma comunque possiede un suo indiscusso fascino attrattivo, senza preoccuparsi di creare le condizioni di decoro, di servizi infrastrutturali e di ospitalità degne di una città moderna e accogliente. Non serve declamare la riqualificazione come obiettivo primario per rigenerare interi quadrati della città, senza che a questa si accompagni l’adozione dei necessari strumenti regolatori. Non serve aggiornare periodicamente i dati dell’emergenza abitativa se non si adottano politiche abitative adeguate. Tutto questo (e altro) a Roma non serve. Serve l’esatto contrario.
Edoardo Bianchi, presidente Acer (Costruttori romani)

 


 

Occorre Superare il tabù del centro storico e dimenticare il rapporto diretto con gli elettori

 

Due sono i tabù che la politica a Roma dovrebbe superare. Il primo riguarda il superamento del potere taumaturgico dell’uomo solo al comando. Roma non ha bisogno del grande nome da sfoggiare, di un personaggio popolare, di un campione della società civile che accentri su di se il peso mediatico dell’incarico, ma di qualcuno che sappia creare una squadra all’altezza. Questo è stato il grande problema delle ultime consiliature. E’ un processo politico che è iniziato negli anni Novanta, quando l’investitura popolare ha iniziato a essere la grande forza dei sindaci che si sono susseguiti alla guida della città. Roma è stata infatti governata per decenni da politici di rilievo nazionale che, o prima o dopo il mandato, hanno avuto importanti cariche governative. Per molti è naturale continuare su questa strada; il problema è che di politici di grande caratura disposti a gestire la città non ce ne sono e soprattutto non risolverebbero il problema: non dev’essere infatti l’investitura popolare, il rapporto diretto con gli elettori, come è stato anche l’illusione di Marino, la chiave per la scelta del prossimo sindaco, quanto la necessità di trovare un rappresentante capace che sappia mettere in piedi una squadra competente e all’altezza nei ruoli chiave. La carenza di una classe dirigente adeguata è un problema chiaro anche a una parte dell’elettorato. E’ per questo che chi tra i candidati indicherà già in campagna elettorale quali saranno i due/tre nomi forti della propria giunta, potrà portare dalla sua parte un pezzo non secondario di opinione pubblica. La seconda questione che deve essere superata è quella che potremmo chiamare il tabù del centro storico. E’ chiaro che tutti noi ci auguriamo che il quadrante centrale della città sia la vetrina di Roma, un salotto internazionale pulito, efficiente e organizzato, però l’attenzione della prossima amministrazione si dovrà concentrare in primis sulla situazione drammatica di quelle altre 10/12 città che esistono dentro il raccordo, ossia i quartieri periferici o semi-periferici. Sono luoghi completamente avvizziti, trascurati dalle istituzioni, che si basano su un’economia primitiva, fatta di pendolarismo, di piccolo commercio, molte volte ambulante: sono quartieri dove i problemi si sono stratificati nel tempo senza che non ci sia stato nemmeno un tentativo, un’ipotesi di intervento. La politica in questi ultimi anni si è limitata a seguire la grancassa mediatica che si è sempre concentrata sulla situazione delle aree centrali della città; ora serve un piano organico e strutturale di intervento pubblico e riattivazione dell’economia privata per evitare la definitiva deriva delle periferie.
Stefano Cappellini (testo raccolto)

 


 

Investire sulla cultura ha senso, ma solo se si sa bene dove si mettono i soldi. Dati a confronto

 

I tabù da superare sono due. Primo. Roma soffre innanzitutto di disordine. Le città nascono per essere ordinate, come ci mostrano la geniale griglia streets/avenues di New York e di altre città americane, e prima ancora l’impianto di molte città romane, anche se proprio Roma non ebbe alle origini uno schema preordinato. E questo segna il nostro destino in modo non favorevole. A Roma il disordine è doppia fila, cartacce per terra, insegne improbabili se non fuori legge, attraversamenti pedonali non rispettati, traffico in cui vince chi occupa per primo qualsiasi spazio. Il disordine a Roma non è una bonaria forma di sopravvivenza, considerazione errata che lo rende appunto un tabù, un elemento intoccabile, ma è una letale forma di malattia che aggredisce e rende difficile la convivenza civile. Investire soldi per una grande e continua campagna di educazione e per ferrei controlli e sanzioni conferirebbe alla città un clima immediatamente diverso. La sconfitta del disordine sarebbe il più efficace piano strategico di marketing di Roma. Secondo tabù. La spesa in cultura Nel 2014, uno studio condotto da un accreditato istituto di ricerche ha stimato che, considerando soltanto quella quota di turisti venuti appositamente a Roma per vedere  due mostre organizzate presso una delle istituzioni culturali della Città, la relativa spesa turistica  è ammontata a oltre 31 milioni di euro e, considerando gli effetti diretti e indiretti (sempre con riferimento ai soli turisti venuti a Roma perché attratti specificatamente dalle due mostre in questione), la stessa ricerca stima che sia stata di 34 milioni di euro la ricchezza aggiunta generata in città, con 1000 posti di lavoro equivalenti. Analisi di questo tipo inducono a pensare che non sempre e comunque le spese in cultura debbano essere ridotte.
Mario De Simoni, direttore generale PalaExpo

 


 

Favorire la sperimentazione, creare partecipazione. Roma è come l’auditorium. cominciamo così

 

Vengo da Madrid e vivo a Roma da sole cinque settimane, sarebbe da  presuntuosi voler fornire una graduatoria dei problemi strutturali specifici di una grande capitale come Roma. Ma può forse risultare utile leggere l’opinione, suffragata da una lunga esperienza di settore, di uno “straniero” (che si sente già romano) sul ruolo manageriale ed economico della cultura in un complesso contesto politico e sociale. Il processo che mi ha condotto alla direzione dell’Auditorium di Renzo Piano è emblematico. Ho risposto in primavera a una call internazionale voluta dall’allora sindaco Ignazio Marino (tra la lettura dell’annuncio e la nomina ad amministratore delegato sono intercorsi lunghi mesi di screening, colloqui e prove pratiche). Nel bando di selezione si specificava chiaramente la richiesta di “creare una cultura organizzativa condivisa”, “implementare una strategia di sviluppo culturale e artistica”, “definire nuovi modelli di finanziamento, come il partenariato pubblico-privato”. Da subito ho pensato che raggiungere obiettivi così ambiziosi avrebbe rappresentato la sfida della mia vita. Come intendo vincerla? Prima di tutto comunicando il profondo amore che provo per la città di Roma. Sembra scontato ma credo che oggi non tutti gli abitanti si rendano conto del prezioso tesoro che hanno a loro disposizione. Credo che a Roma, la città più bella, antica e ricca di storia del mondo, più che in ogni altro luogo economia e cultura devono rappresentare un binomio indissolubile, e ciò che vale per Roma vale ovviamente per l’Auditorium che rappresenta uno dei gioielli di questo tesoro. E poi bisognerebbe collegare tra loro le realtà culturali e di spettacolo presenti su questo splendido territorio, integrandole con le richieste (e le proposte) che provengono dalle periferie. L’obiettivo di arricchire l’offerta e definire nuovi modelli di rapporto pubblico-privato si raggiunge secondo me andando oltre l’equazione “evento culturale = bene di consumo”. Significa guardare al futuro, favorire la sperimentazione, creare la partecipazione, comprendere le esigenze delle nuove generazioni. Per rendere internazionale un’offerta complessiva, innovativa. Non posso certo dire se questa aspettativa possa essere estesa all’intera città di Roma. Certamente è mio impegno applicarla all’Auditorium.
José R. Dosal, amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma.

 


 

Ci sarà un cambiamento solo puntando su tre idee: trasparenza, efficienza e diversità

 

Gli ebrei romani vivono in questa città da oltre 2000 anni e sono certamente i più “antichi” fra i romani di Roma. Nei secoli abbiamo assistito a tanti cambiamenti, dominazioni, rivoluzioni, celebrazioni. Da attenti osservatori e soprattutto conoscitori esperti di questa nostra bellissima città spesso avremmo voluto vederla ancora più bella. E' chiaro che alcune scelte coraggiose e non certo sprovvedute bisognerà farle e penso queste siano le occasioni in cui si può fare ordine, nella gestione, nelle politiche e nelle strategie da perseguire.  Trasparenza, efficienza e diversità: questi sono i tre valori su cui deve giocarsi il futuro della città nei prossimi anni. Nessun cambiamento potrà avvenire finché le diverse realtà che rappresentano la città, siano singoli cittadini, associazioni o organizzazioni come la nostra non aprano un ragionamento serio e responsabile verso la città e si mettano quindi per primi a disposizione del bene comune. Per fare ciò è necessario che l'amministrazione cittadina tenda la mano in un dialogo fatto di ascolto attivo dei romani che da sempre sono alla ricerca di uno scambio che non sia solo burocrazia. Portali e sportelli informatici che permettano anche da casa di essere attivi e partecipativi, ma soprattutto un impegno da parte di tutte le associazioni ad assumersi le proprie responsabilità a farsi carico dei problemi ed a condividerne le soluzioni con chi deve gestire senza sprechi il bene comune. I nostri valori sono poi certamente quelli dell’accoglienza dell'integrazione ma anche della multiculturalità. Roma ancora non ha ben sviluppato le sue capacità ricettive in ambito turistico e non ha saputo cogliere l’occasione di creare percorsi culturali specifici che possano essere meta ed attrazione del grande pubblico internazionale. Per questo da tempo ci prodighiamo per ampliare anche i percorsi ebraici, molto ambiti  in altre città europpe, e che oggi sono a Roma, purtroppo, ancora poco valorizzati: un esempio per tutti le rovine di Ostia Antica e le catacombe ebraiche. Con il nostro Museo ed il patrimonio unico in esso contenuto questo potrebbe essere davvero un polo di attrazione e un centro di diffusione di cultura e valori che la città rappresenta da sempre e che ad oggi in pochi, spesso anche gli stessi romani, conoscono poco. Tutti noi siamo figli di Roma e da tali dobbiamo prendercene cura, soprattutto nei momenti di maggiori difficoltà.
Ruth Dureghello, Presidente Comunità Ebraica di Roma

 


 

I tabù sono il cinismo, il non senso civico, le istituzioni lontane. Seguiamo la lezione di Belli

 

Il primo tabù da rottamare è quello più legato all’amministrazione di Roma, da sempre: Roma ladrona. Il luogo comune più impossibile da superare, considerato quasi un’imperfezione genetica della nostra città. “E Roma, indove viengheno a dà ffonno, / E rinnegheno Iddio, rubben'e ffotteno, / E’ la stalla e la chiavica der monno”, scriveva Gioachino Belli in un suo celebre sonetto, ancora molto attuale, sulla Roma papalina ottocentesca. Si deve ripartire da qui. E credere che sia possibile. Perché è accaduto in passato in molti tentativi anche esemplari, dalle amministrazioni Nathan di inizio Novecento a quelle di Rutelli e Veltroni di pochi anni fa.

 

Strettamente legato a questo è l’altro tabù da archiviare – quasi il riflesso speculare di Roma ladrona – che riguarda tutti noi cittadini romani: il nostro cinismo, lo scarso senso civico, la noncuranza per la città e la distanza dalle istituzioni. Credo sia stata, nei secoli, la reazione “darwiniana” – non giustificabile ma comprensibile – a una città splendida nelle vestigia, nella bellezza e nelle architetture, ma miserevole e inconsistente  nel suo essere città al servizio dei cittadini. Da questo punto di vista forse una città mai nata.  Si deve sapere che i romani sono questo, ma credere che possano essere anche altro. Che non esiste un codice genetico alterato nel sangue di tutti noi. Nella mia piccola e particolare esperienza, sebbene in forme forse elitarie e di nicchia, ma divenute sempre più popolari, come le Scuderie del Quirinale, l’Auditorium per lunghi anni e ora il Teatro dell’Opera,  ho visto dei cittadini orgogliosi e rispettosi, sensibili e curiosi, aperti e cosmopoliti, creativi e lavoratori. Tutto il contrario degli stereotipi di cui sopra.

 

Quando accettai di lasciare il prestigioso e ormai avviato Parco della Musica per il Teatro dell’Opera, molti (tutti?) amici e attenti conoscitori e osservatori di Roma mi presero per pazzo. Far funzionare quel teatro veniva da decenni considerato impossibile. Eppure il tentativo ha avuto successo e si è realizzato grazie al lavoro degli stessi romani (lavoratori, cittadini e politici) che devono vivere e tirare avanti in una città difficile e diffidente. Chi governerà Roma deve abbattere questi due tabù. E’ possibile farlo.
Carlos Fuortes, sovrintendente del Teatro dell'Opera di Roma

 


 

Roma si rivoluziona se cominceremo a renderci conto cosa vuol dire governare con gli smartphone

 

Digitalizzazione è una delle parole del momento. La pronunciamo e la scriviamo spesso senza considerare cosa veramente significhi e come cambierà la nostra vita di tutti i giorni nei prossimi cinque o dieci anni. Gli esempi più caldi di Uber e Airbnb sono solo un assaggio di come questo processo di innovazione stravolgerà il modo di fare le cose, rivoluzionando poteri consolidati, organizzazioni pubbliche e private, sovvertendo l’ordine che abbiamo conosciuto nel secolo industriale. Intere corporazioni  proveranno a opporsi ma, al pari di chi prova a fermare il vento con le mani, saranno spazzate via. C’è invece una straordinaria occasione che ci aspetta e che migliorerà la vita delle persone regalandoci più libertà di scegliere e più opportunità di parlare a tutto il pianeta, piuttosto che a un quartiere. La digitalizzazione costringerà imprese e istituzioni a cambiare radicalmente i processi, l’organizzazione, gli assetti interni. Tutto ciò succederà grazie alla tecnologia, ai Big Data e al fatto che ciascuno porta in tasca uno smartphone – una capacità di elaborazione che solo dieci anni fa pesava 20 volte tanto.
La maggior parte delle realtà italiane che si misureranno concretamente con tutto ciò si trova a Roma. Realtà come Eni, Enel, Telecom, Poste, Fs, Acea, diverse delle quali hanno già avviato importanti processi di digitalizzazione dei propri business, possono fare da spinta e da traino. E’ romana la pubblica amministrazione dello Stato centrale. Anche le imprese più innovative potranno giocare un ruolo: Roma e Lazio sono terze in Italia per numero di startup presenti sul territorio e proprio qui si tiene la Maker Faire. C’è, infine, il grande sistema dei beni culturali, senza il quale Roma non sarebbe la stessa.

 

In Acea, cerchiamo di fare la nostra parte: stiamo costruendo un’azienda di servizi “all digital”, investendo in tecnologie tra le più avanzate a livello internazionale. Nel corso del 2016 ogni nostra attività avverrà senza carta e attraverso un modo di pensare e agire totalmente integrato. Questo ci consentirà di gestire con grande efficacia i nostri big data, aumentando esponenzialmente la qualità dei servizi offerti a clienti e cittadini. Siamo consapevoli che dalle nostre reti passa una fetta importante dei processi di innovazione della Capitale e siamo pronti a fare la nostra parte. E’ importante però che Roma, e chi si candiderà a guidarla, sappia mettere a sistema le sue forze migliori (università, giovani imprenditori, grandi aziende e startup) e creare un ecosistema che renda effettivamente possibile, giocare e vincere la carta fondamentale dell’innovazione. Può avvenire proprio qui, nella Capitale d’Italia.
Alberto Irace, Ad Acea

 


 

E’ il momento per discutere di idee senza collateralismI con le ricette elettorali

 

La crisi politica del Campidoglio ribadisce che, senza un adeguato insieme di idee, qualunque leadership è assolutamente sovrastata dalla complessità di una metropoli. Ben venga, dunque, un dibattito che recensisca anzitutto le idee da superare, che spesso coincidono con quelle protocollari e con i luoghi comuni. La prima idea da stressare è un eccesso di politicizzazione. E non solo perché la politica non ha dato una brillante prova di sé nelle ultime stagioni, ma per la constatazione ovvia che i problemi, le contraddizioni e le stesse chance di Roma hanno bisogno di una pausa istituzionale. Oso dire che l’avvento di due prefetti al capezzale della città ha regalato la sensazione persino imbarazzante che la decapitazione della politica non sia stata percepita come una sciagura. Del resto, nessuno oggi penserebbe alla Capitale come a una “nave senza nocchiero in gran tempesta”, mentre una frase di questo genere avrebbe fatto fortuna in un editoriale contro il Sindaco uscente. Occorre poi rimuovere un luogo comune caro ai residui pastonisti politici, e cioè che il futuro di Roma sia legato ai partiti, agli schieramenti e alle alleanze. La contesa elettorale è un fatto riconducibile alla lotta politica, ma la verità è che l’emergenza Roma si giocherà nel teatrino della comunicazione; e dunque con la presa d’atto che mai come stavolta sarà strategica la scelta dei candidati. In tempi di crisi, la personalizzazione può diventare una risorsa, persino restituendo un minimo di credibilità a partiti indeboliti dall’antipolitica e dalla modesta capacità di problem solving. Ma l’idea peggiore è quella di rimandare il dibattito sulla città al momento in cui squilleranno le trombe della politica. E’ questo il tempo e il momento per discutere idee miracolosamente esentate da un eccesso di collateralismo con le ricette elettorali. Se ci pensiamo bene, mai è capitato di avere un tempo sabatico per discutere ricette, proposte, dossier e persino slogan mobilitanti come quello del commissariamento. E’ il primo miracolo del Giubileo, che sembra avere misericordia dei politici. Spetta a tutti noi l’onere di attaccare le idee risultate fallimentari e proporne nuove.
Mario Morcellini, Pro Rettore alla Comunicazione, Sapienza Università di Roma

 


 

Roma ha bisogno di un rapporto ordinato con la sua eccezionale normalità

 

E’ una capitale del mondo, ma è anche provinciale. Ne ha viste tante, forse troppe, e dunque vede lontano. Ma è anche spesso miope e cinica. Il punto è proprio qui: i suoi problemi e la soluzione dei suoi problemi coincidono. A cominciare dai suoi abitanti, i romani. Cioè noi. Romani di nascita. Romani da generazioni. Oppure romani d’adozione. Spesso troppo disincantati per essere capaci di incantarci ancora. E di progettare un futuro per una città con così tanto passato stratificato sotto i nostri piedi e nella nostra memoria. Dunque per cambiare Roma dovremmo cambiare innanzitutto il modo in cui la vediamo, Roma, in cui la viviamo. E la offriamo da vivere a chi ci viene nonostante tutto. Per il Papa, per la Roma cristiana, che vuol dire duemila anni di storia. O per la Roma pre-cristiana, che sono altri secoli sotto i nostri piedi. Roma non può essere ridotta a una photo opportunity. Non è solo piazza San Pietro o il Colosseo. Roma ha bisognodi  un rapporto ordinato con la sua eccezionale normalità, con il suo vescovo, che è il Papa, con la sua storia che è la storia delle radici dell’occidente. Con i milioni di turisti che ci vengono magari solo per poche ore e che invece potrebbero viverla meglio. La bellezza del Giubileo come lo ha pensato Papa Francesco sta in questo sapere coniugare eccezionalità a normalità. E questa dovrebbe essere la caratteristica di Roma. Sempre. Non servono effetti speciali, non servono grandi messe in scena. Serve solo recuperare la capacità di vedere, e di curare la grandezza che c’è. Faccio degli esempi: sarebbe così difficile ricucire pezzi di città non vissuti, praticamente abbandonati dai romani e fuori dai circuiti turistici? Ricucirli con dei parchi lineari, pedonali, ciclabili che attraverserebbero secoli di storia? Sarebbe così difficile recuperare il patrimonio dell’archeologia  industriale più recente (come per esempio le fabbriche sulla Tiburtina, o sulla Prenestina)  usi diversi, integrando abitazioni e artigianato, e accoglienza? Sarebbe così difficile mobilitare i romani per progetti integrati mobilitando le energie positive presenti nella città la rendano più accogliente, più viva culturalmente, e più cristiana anche solo nel senso crociano del termine? Penso di no. E penso che la soluzione siamo noi. Come dice il titolo di un programma di Tv2000. Siamo noi e non gli altri la chiave del futuro che vogliamo.
Paolo Ruffini, direttore di TV2000

 


 

Roma diventi capitale degli investimenti internazionali e di una nuova pubblica amministrazione

 

Se dovessi scegliere due cose di Roma da rottamare, dividerei tra concetto e concretezza, vale a dire fra scenario complessivo e azione da avviare con estrema rapidità. Penso che anzitutto si debba rottamare la rassegnazione che questa città non possa cambiare; ognuno si deve fortemente attrezzare per dimostrare il contrario.  Occorre recuperare la concezione di una Roma eccezionale perché capitale unica di storia, religione, arte e cultura. Dobbiamo abbandonare però il pensiero strisciante che questa unicità sia anche una condanna alla decadenza per quello che è stato e non può più essere. Dobbiamo convincerci tutti che Roma può diventare ancora capitale di altre eccellenze: capitale del rispetto delle regole, capitale della creatività e dell’innovazione, capitale degli investimenti internazionali, capitale di una nuova pubblica amministrazione. Partendo proprio da un ridisegno della macchina pubblica, dei perimetri, delle funzioni e dei poteri di Roma Capitale può ripartire la rinascita di quello che non può più essere solo il più grande e ingombrante comune d’Italia. Per la seconda urgenza rimango più vicino al mio ruolo di presidente degli industriali del Lazio e dico: vanno rottamati i bilanci in perdita e i debiti delle aziende partecipate da Roma Capitale. Bisogna restituire alla città servizi che siano all’altezza di una grande metropoli internazionale, servizi in grado di essere una risorsa per la città e non un buco nero di cattiva gestione e di insopportabile disagio per gli utenti. Vorrei rottamare definitivamente i 700 milioni di appalti di Ama assegnati senza gara o il 90 per cento dei 2 miliardi di forniture Atac affidati in maniera irregolare, per non dimenticare i 26 milioni di debito di Zetema che gestisce uno tra i patrimoni culturali più importanti del mondo. Riportare disciplina aziendale ed efficienza nelle ex municipalizzate, voltare pagina abbattendo steccati ideologici precostituiti su ciò che può fare il privato: questa è la strada del cambiamento da intraprendere per ritornare ad avere servizi che servano al pubblico e non servizi pubblici che ostacolino i cittadini. Recuperare la dimensione delle cose minime da sistemare, per avere una città che semplifichi la quotidianità di chi la vive e non la complichi. Per cambiare insomma bisogna convincersi di poter essere migliori, ma soprattutto iniziare ad esserlo.
Maurizio Stirpe, presidente Unindustria

 


 

Il prossimo sindaco di Roma dovrebbe girare la mattina alle cinque in città, e capirebbe tutto

 

Se devo immaginare un nuovo sindaco per Roma, non penso ad un politico, ma ad una figura con un approccio pragmatico e concreto, direi una mentalità da ingegnere. Sento infatti troppe parole nel dibattito politico su Roma, ma poche proposte concrete. Parto da una semplice considerazione: perché Parigi o Londra risultano così più attrattive di Roma? A Roma cosa manca per essere la città più visitata Europa? Abbiamo arte, cultura, gastronomia, anche un clima invidiabile, tutti motivi per far arrivare a Roma turisti sempre più numerosi ma anche più qualificati. Ma il turismo di alto livello deve essere attirato da una gestione più moderna delle risorse culturali: io affiderei ai tanti giovani che sanno muoversi al meglio sul web, il compito di rilanciare l'offerta turistica della città. Otterremmo così un duplice risultato, rinnovare la città per i turisti e per i romani, e insieme impiegare tanti giovani ti talento che non riescono a trovare lavoro. Roma ha già tutto, ma la sensazione è che se ne sia a volte dimenticata. Penso, ad esempio, al cinema che è un'industria importante per Roma e nello stesso tempo può rappresentare un veicolo straordinario per portare fuori dall'Italia la nostra cultura, il nostro modo di vivere che tanti all'estero ci invidiano. Ecco, nella capitale del cinema italiano manca un museo dedicato e mancano anche spazi aggregativi  sul territorio dove poter andare a vedere un film, comprare un libro, mangiare qualcosa, accessibile anche ai giovani che non hanno grandi disponibilità economiche. Non è questione di mancanza di risorse economiche: conosco molti imprenditori che sarebbero felici di poter investire in progetti di questo tipo, e mi ci metto anch'io, ma manca una progettualità forte da parte dell'amministrazione pubblica che possa  stimolare e incanalare le risorse di chi vuole investire su Roma. E proprio per essere concreti provo ad avanzare due proposte che potrebbero essere adottate facilmente e dovrebbero risultati immediati. La prima proposta che faccio è quella di ridurre in modo netto la  burocrazia che blocca le iniziative imprenditoriali, in particolare quelle dei giovani. Faccio un esempio concreto: se dei ragazzi vogliono aprire un locale, un bar, un ristorante invece di sottoporli alla trafila infinita di adempimenti burocratici che sono richiesti in questi casi, il comune concede l'autorizzazione chiedendo il rigoroso rispetto di tutte le regole. Una volta aperto il locale gli enti preposti controllano che effettivamente tutto sia in regola e in caso di irregolarità fanno chiudere l'attività e sanzionano pesantemente gli imprenditori. Si tratta di instaurare un rapporto di fiducia reciproca tra istituzioni e cittadini: il comune si fida dell'imprenditore che può quindi avviare la sua attività in tempi certi e rapidi, ma se questa fiducia viene tradita interviene con severità. La seconda proposta è quella di garantire un capillare controllo del territorio a tutti i livelli (dalla sicurezza al decoro urbano al traffico all'abusivismo ecc.) attraverso la creazione di  sindaci di quartiere, assegnando a ciascuno una porzione di territorio più piccola degli attuali municipi e richiedendo un monitoraggio continuo delle varie situazioni a rischio. Va quindi costruito un sistema di controllo che quotidianamente sia attivo nelle strade e nelle piazze con la possibilità di aggiornare in tempo reale l'amministrazione centrale su emergenze, necessità e fabbisogno concreti degli abitanti. Lancio poi una provocazione: vorrei che il nuovo sindaco, insieme ai suoi assessori, una volta alla settimana andassero in giro per Roma alle cinque di mattina per vedere con i propri occhi la situazione della città, rifiuti , buche trasporti , traffico  illuminazione etc. Perché è ora che il sindaco scenda dal Campidoglio e, per così dire, si immerga fino in fondo nella città, a contatto diretto con la gente comune, quella che vive nel centro e nelle periferie, che deve spostarsi con i mezzi e mandare i propri figli nelle scuole pubbliche.
Pietro Valsecchi, produttore cinematografico

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