Addio federalismo, anche se non ti abbiamo mai conosciuto

Carlo Lottieri
Oggi il via libera definitivo alla riforma costituzionale del Senato e del Titolo V della Carta. Il federalismo ha fallito, dicono tutti. Ma quello italiano fu vero federalismo? - di Carlo Lottieri

Ormai è quasi un luogo comune: in Italia il federalismo sarebbe fallito. Tale retorica inizia a produrre effetti, come rivela il modo in cui il governo di Matteo Renzi sta definitivamente rimodulando in queste ore la Costituzione, riportando al centro poteri decisionali in precedenza localizzati.

 

Anche taluni che intendono farsi interpreti di una prospettiva liberale e riformatrice affermano ormai che il federalismo può anche essere una buona cosa in altri contesti, ma da noi si è rivelato disastroso. La vulgata punta il dito contro gli sprechi dei comuni, delle province e delle regioni, ma oltre a ciò – soprattutto in considerazione degli esiti della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 – evidenzia al contempo i problemi derivanti dall’introduzione delle cosiddette “competenze condivise” e dall’assommarsi di vari livelli di autorizzazione e regolazione.

 

In sintesi, si contesta il federalismo perché avrebbe (nei fatti) accresciuto la tassazione e ampliato gli intralci che già prima esistevano sulla strada di quanti vogliono intraprendere. Talune critiche sono fondate, ma l’errore basilare consiste nel partire dagli ultimi vent’anni di riforme dette federaliste per arrivare diritti alla conclusione che il federalismo (inteso, in primo luogo, quale autogoverno delle comunità) andrebbe rigettato.

 

Il “federalismo” che è fallito, però, non era tale. Per due ragioni fondamentali: una di carattere più teorico e l’altra assai specifica.

 

Storicamente un ordine federale ha sempre implicato un accordo tra realtà istituzionali indipendenti che s’accordavano su come gestire assieme, fino a quando a loro aggradava, questo o quel problema che ritenevano di poter gestire meglio grazie a questa cooperazione. Tutto ciò sarà spazzato via dal modello statuale, i cui “sacerdoti” (i giuristi del nuovo diritto pubblico) s’incaricheranno pure d’introdurre una distinzione concettuale tra federazione e confederazione.

 

Negli ultimi decenni, a ogni modo, in Italia non abbiamo avuto comunità politiche indipendenti che hanno sottoscritto un “foedus” (un patto, insomma) per delineare un ordine retto dalla volontà di stare assieme. Molto semplicemente, il potere statale ha affidato a questa o quella struttura periferica taluni compiti. Tutto questo può essere definito in vari modi, ma non ha nulla a che fare con il federalismo.

 

In termini anche più specifici, è chiaro che non ci si dirige nemmeno a piccoli passi verso una società federale quando s’incarica qualche ente locale di assolvere a qualche competenza, ma non si mettono in stretta connessione le entrate e le uscite. Una delle grandi virtù dei sistemi un tempo realmente federali sta proprio nel fatto che, per ricordare una realtà a noi non distante, nel contesto elvetico i cantoni e i comuni vivono in larga misure di risorse che chiedono direttamente alle popolazioni amministrate. Autonomia di spesa e ampie competenze sono correlate al fatto che ognuno spende in larga misura quello che tassa: e ciò introduce elementi di una competitività istituzionale che spinge le differenti istituzioni a operare al meglio.

 

[**Video_box_2**]In Italia tutto questo non si è mai visto né capito, come dimostra il fatto che molti arrivano perfino a considerare federalista la regola, che ora sarà inserita in Costituzione, dei cosiddetti costi standard. Constatato che una siringa comprata dal sistema sanitario in Calabria può costare molto più che in Lombardia, si decide di definire un prezzo massimo al fine di evitare gli sprechi e, con ogni probabilità, anche il malaffare. Ma la risposta federalista sarebbe stata diversa, perché avrebbe costretto ogni realtà a finanziarsi da sé e rendere conto delle proprie azioni ai propri elettori. Non si realizza alcun federalismo costruendo, come si è fatto da noi, un’autonomia di spesa che non è gravata dall’onere della tassazione e che spinge, per forza di cose, a far dilatare le uscite.

 

Il fallimento di questo decentramento ben poco federalista era prevedibile e nessuno può davvero sorprendersi di fronte a quanto è avvenuto.