Il porto di Gioia Tauro (foto LaPresse)

Regioni ammazza pil

Renzo Rosati
Se sei un amministratore regionale di Puglia, Calabria, Basilicata, Marche, Abruzzo, Veneto, Liguria, Sardegna, Molise, Campania, vuoi cancellare con referendum – nella prossima primavera – la possibilità di estrarre petrolio e gas al largo delle coste nazionali.

Roma. Se sei un amministratore regionale di Puglia, Calabria, Basilicata, Marche, Abruzzo, Veneto, Liguria, Sardegna, Molise, Campania, vuoi cancellare con referendum – nella prossima primavera – la possibilità di estrarre petrolio e gas al largo delle coste nazionali; non solo davanti a casa, ma per le 12 miglia nautiche di tutte le acque territoriali. Se poi sei anche un dirigente abruzzese o pugliese ti opponi di fronte ai Tar e al Consiglio di stato pure all’arrivo e al passaggio del gasdotto Trans-Adriatico (Tap). Se poi ricopri la carica di soprintendente ai beni paesaggistici della Basilicata, allora hai dato parere negativo all’estrazione di petrolio nel sottosuolo della tua regione – l’unica in Italia dove è stato trovato in abbondanza – mentre se sei sindaco del comune lucano di Viggiano ti opponi alle trivelle “vicine alla piazza Papa Giovanni XXIII ove transita la processione della Madonna Nera”. Il governatore siciliano Rosario Crocetta, a lungo incerto se unirsi ai dieci colleghi “no-triv”, si è sfilato in extremis “in quanto ex sindaco di Gela”, area che sul petrolio ci ha sempre campato e contro la paventata chiusura della raffineria Eni ha organizzato innumerevoli veglie di protesta. In compenso il tribunale di Messina ha da sei mesi messo sotto sequestro il pilone numero 40 dell’elettrodotto Sorgente-Rizziconi destinato a portare l’alta tensione tra Sicilia e Calabria: danno finora stimato dalla Terna, 600 milioni di euro. Pure la Sardegna ha una lunga tradizione di proteste per le raffinerie: sia per il rischio d’inquinamento sia per le ricorrenti voci di chiusura, a cominciare da quella ex Moratti (ora Rosneft) di Sarroch.

 

Intanto la regione, oggi di sinistra, si è unita al movimento antitrivellazioni, al pari di Veneto e Liguria di centrodestra, benché i disastri ambientali si siano verificati con i depositi di Genova e Marghera, non con le ricerche nel  mar Ligure o nell’Adriatico. I sindaci calabresi hanno protestato contro lo scalo a Gioia Tauro della “nave dei veleni” americana che portava via dalla Siria armi chimiche. I comitati di lotta di Livorno (rosso) e Trieste (azzurro) contro i gassificatori al largo delle coste, e a Venezia e altrove anche contro l’eccessiva presenza di navi da crociera. Il culmine del regionalismo “nimby” (not in my backyard), ostile a ogni ricerca energetica controllata dallo stato centrale, si è appunto avuto ieri, quando i dieci rappresentanti regionali hanno presentato alla corte di Cassazione la richiesta di referendum per abrogare parti dei decreti Sviluppo e Sblocca Italia che dovrebbero ridurre la dipendenza di petrolio e gas dall’estero (l'88 per cento rispetto al 53 di media europea), aumentare le royalties che andrebbero a beneficio anche delle stesse regioni, e creare lavoro.

 

La riforma costituzionale, quella utile

 

La competenza sulla politica energetica è nazionale, dunque le regioni tirano in ballo vincoli ambientali, ma la vera posta in gioco è un’altra: e cioè l’articolo 117 della riforma costituzionale firmata Maria Elena Boschi che riscrive il famigerato titolo Quinto, con il quale l’Ulivo dette alle regioni molti poteri che ora il governo Renzi vuole riportare sotto il controllo dello stato, almeno “per questioni di interesse nazionale”. Come nel 2011 dal varco del referendum sull’“acqua bene comune” passò lo stop alla privatizzazione di aziende locali quasi tutte in perdita e inefficienti, ora ecco il bis. Tra l’altro delle materie concorrenti stato-regioni dovrebbe occuparsi il nuovo Senato: auguri.