Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Regolare gli ascolti? Già fatto e rifatto. Ricognizione su un malanno mediatico strumentalizzato ad arte

Intercetta qui, intercetta lì, alla fine la politica sta al gioco

Salvatore Merlo
“Oggi mettono sotto te, domani metteranno sotto me”. Una volta ci va di mezzo Maurizio Lupi (Ncd) per via di un orologio regalato al figlio, ma poi tocca a Rosario Crocetta impigliato in un’intercettazione telefonica che forse nemmeno esiste. Perché ogni spiato è bello a mamma sua.

Piano piano, da scandalose che erano, le intercettazioni si fanno epopea democratica, scienza del consenso, ideologia e religione della trasparenza, ma soprattutto strumento della politica, che da circa vent’anni si attrezza a regolamentarle (erano gli anni di Mani pulite quando cominciò a diffondersi il malo costume), e da circa vent’anni non combina niente: dai decreti Mastella alle leggi Alfano fino alle timidezze di Andrea Orlando, è tutto un disordinato ondeggiare e tumultuare: leggi draconiane, spaventosamente punitive, carcere per i giornalisti, multe salatissime, si alternano a preoccupate considerazioni sulla libertà di stampa e sulla necessità di garantire l’efficacia delle indagini, come ha ripetuto ieri anche il presidente del Senato, e magistrato, Pietro Grasso. E ovviamente più i legislatori si agitano, più ne fanno materia di contesa, questione di gladiatorio principio, più restano fermi. Così fanno una legge sulle intercettazioni ambientali, com’è successo pochi giorni fa, fiero il cipiglio, marcato il profilo, deciso l’approccio, ma poi se la rimangiano, allora cercano di proporre un principio minimo di civiltà – le intercettazioni penalmente irrilevanti non dovrebbero essere pubbliche – ma poi arrivano gli emendamenti, e le campagne sul bavaglio, quell’idea secondo cui è nella spazzatura delle intercettazioni che si nascondono gli umori e dunque la verità, e cosa mai importa se il codice di procedura penale, con gli articoli 114 e 329, stabilisce che le indagini sono segrete mentre il processo è pubblico. 

 

Così, mentre questa parola scandalosa, “intercettazione”, rimbalza ogni giorno e più volte al giorno tra i più alti seggi dell’empireo politico nazionale, tra preamboli, aperture, spaccature, fronte del sì, fronte del no, corrente del forse, ala del magari, zoccolo del tuttavia, pattuglia del chissà, e insomma mentre questo dibattito diventa eterna guarnizione del Parlamento e di ogni legislatura, in chi osserva sorge il legittimo sospetto (lapsus) che ormai le intercettazioni selvagge non siano soltanto accettate, ma che quasi facciano parte delle regole del gioco. E forse davvero gli italiani sono intimamente convinti che gli innocenti non esistono e che per ciascuno può esserci l’intercettazione che lo inchioda, o forse le intercettazioni sono in fondo un mezzo random di lotta politica: “Oggi mettono sotto te, domani mettono sotto me”, una volta ci va di mezzo Maurizio Lupi per via di un orologio regalato al figlio, ma poi tocca a Rosario Crocetta impigliato in un’intercettazione telefonica che forse nemmeno esiste. E insomma sono bipartisan e democratiche, le benedette intercettazioni. Talvolta fastidiose, altre volte utilissime, come un acquazzone che una volta t’impedisce di giocare a pallone, ma la volta dopo evita una visita alla suocera: un giorno ci va di mezzo Silvio Berlusconi, dopo qualche anno tocca a Matteo Renzi. E certo qui si sta volontariamente sfiorando il paradosso, ma sono vent’anni che la politica usa le intercettazioni, quando le conviene, per far fuori l’avversario, complici magistrati e poliziotti infedeli, eppure contemporaneamente stigmatizza questo cortocircuito, in un gioco che dopo vent’anni comincia ad assumere il sapore acre della presa per i fondelli. E così la sinistra renziana, che aveva storto il naso per gli origliamenti telefonici del generale Adinolfi con il premier Renzi, ha usato l’evanescente intercettazione di Crocetta contro il governatore che le stava antipatico, e così hanno fatto anche quegli esponenti della destra che pure – da vent’anni! – difendevano l’intercettato Berlusconi, mentre una certa sinistra morale in questo caso si è improvvisamente scoperta garantista.

 

[**Video_box_2**]E allora si capisce che ogni intercettato è bello a mamma sua, e che nelle intercettazioni telefoniche, con il loro corteggio di allusioni, con quell’arietta generica di malaffare, anche a prescindere dalla individuazione di precisi reati, ciascuno ci puccia il gustoso biscotto della rivalsa e dell’opportunismo. I princìpi, il diritto, la civiltà, stanno a zero. Come spiegare altrimenti i ventennali ondeggiamenti della volontà, i mille pietosi conciliaboli, le riunioni di ragionamento, le bozze e i disegni di legge che crepitano come la fiamma nelle stoppie d’inverno: senza approdare a nulla, ancora adesso, ora che la maggioranza di governo approva una legge e subito se ne pente. Nel 2001 era Piero Fassino a denunciare un certo “voyeurismo mediatico” chiedendo “una normativa più adeguata”, ma poi arrivarono le urne. E così le intercettazioni, che come abbiamo detto a quanto pare sono utili e democratiche, dopo aver colto il famoso e fassiniano “abbiamo una banca”, rivolsero la loro attenzione alla destra berlusconiana, e dunque tornarono accettabili a sinistra.

 

Oggi come ieri, la crudele betoniera del tempo non cessa mai di rigirare e rimescolare gli stessi poveri ingredienti, e il Parlamento, la fantastica logomacchina, ha ripreso a discutere di ascolti telefonici, con esiti grotteschi, nel solito e riuscitissimo contrappunto di malinconie e violenze, di lamenti e strumentalizzazioni, chiacchiere e pasticci da commissione parlamentare, che portano all’affiorare strapotente di una subcoscienza politica che si potrebbe riassumere così: le intercettazioni ci vanno benissimo.

 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.