Enrico Letta e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Quanta ipocrisia sulle intecettazioni (abusive) di Renzi sull'avversario Letta

Rocco Todero
Il mio avversario politico è “un incapace” per definizione, a prescindere da chi sia e da ciò che abbia fatto. E’ il mio avversario, mi contende il potere, tanto basta sopratutto se lo sbertuccio in una conversazione privata.

Non è necessario scomodare Niccolò Machiavelli, né richiamare i consigli che dispensava al Principe sulla necessità di dissimulare le reali intenzioni di chi volesse prevalere nell’agone politico per rendersi conto che la recente polemica sui contenuti delle conversazioni private del capo del governo, carpitegli col classico metodo delle intercettazioni “a strascico” e ovviamente pubblicate nonostante penalmente irrilevanti, è la quintessenza dell’ipocrisia politically correct.

 

Forse più opportune potrebbero apparire le parole di Rino Formica che in epoca di esercizio democratico del potere ricordava che la politica è “sangue e merda”, alludendo, ovviamente, alla inevitabilità di un combattimento rude nel corso del quale intrighi, tradimenti e voltafaccia sono gli utensili indispensabili di chi non voglia soccombere orgoglioso di un assalto fallimentare all’arma bianca.

 

Ma a molti piace vestire i panni delle educande in servizio permanente effettivo, cosicché si reclama buona fede, coerenza, trasparenza e persino accountability (pensate un po') nella condotta privata di chi a stento trattiene la propria legittima ambizione di arrivare lassù in cima, dove finalmente comandare è forse meglio che fottere.

 

Troppi fanno ancora finta di non sapere che il mio avversario politico è “un incapace” per definizione, forse persino un ebete, a prescindere da chi sia e da ciò che abbia fatto. E’ il mio avversario, mi contende il potere, tanto basta e mal gliene incolga, sopratutto se lo sbertuccio in una conversazione privata con chi ritengo di essere in confidenza.

 

Certo, ha ragione l’offeso, tutto si commenta da sé, compresa l’ipocrisia di pretendere lodi ed elogi sperticati nel corso di una conversazione privata da parte di chi intenzioni e desideri non proprio benevoli verso i concorrenti aveva manifestato già da qualche tempo, compreso il voltafaccia di una compagine parlamentare scelta per lo più dallo smacchiatore di giaguari per sostenerlo nell’improba impresa e subito disponibile prima a puntellare un giovane doroteo cresciuto non certo lontano dalle stanze dei bottoni e poi il diretto avversario interno dell’ex segretario. Tutto si commenta da sé, certo, compreso il muso lungo e i modi non proprio interurbani, avrebbe detto il grande Totò, trasmessi in eurovisione a reti unificate nel corso della cerimonia del passaggio della campanella tra l’ex presidente del Consiglio e il suo successore, incaricato questo ultimo, secondo Costituzione, dal Presidente della Repubblica, non da uno qualsiasi. Roba che le educande in servizio permanente effettivo avrebbero dovuto starnazzare sui giornali per settimane intere.

 

[**Video_box_2**]Paolo Sorrentino nel Divo, film ispirato alla vita e alla carriera di Giulio Andreotti, in una scena che forse più di tutte le altre esprime la cifra della estetica politica del protagonista, mostra l’applauso apparentemente compiaciuto del sette volte presidente del consiglio a Oscar Luigi Scalfaro che gli aveva appena portato via il sogno di una vita, la poltrona di Capo dello Stato. A chiosare l’applauso e il gesto riverente di Andreotti che si alza in piedi al momento della proclamazione dell’avversario che lo ha appena sconfitto, un deputato democristiano, che rivolgendosi a un collega sussurra: “Guarda adesso Andreotti e impara come si sta al mondo.”

 

Altri tempi, altre ipocrisie

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