Nella Terra sotto streaming nessun film potrà più descrivere lo spione come un travet certosino dell’intercettazione (Gerd Wiesler in “Le vite degli altri”, 2006)

In morte della trasparenza

Marianna Rizzini
Vallo a dire all’Ignazio Marino sotto scorta, sindaco di Roma renitente alle dimissioni invocate da altri sull’onda del bailamme di “Mafia Capitale”, che il mostrarsi con impronta automotivazionale in streaming rischia di sembrare non atto di forza, non più, ma iperbole di debolezza.

“Se non sei trasparente, cos’hai da nascondere?”.

(Da “Il cerchio” , Dave Eggers)

 

Vallo a dire all’Ignazio Marino sotto scorta, sindaco di Roma renitente alle dimissioni invocate da altri sull’onda del bailamme di “Mafia Capitale”, che il mostrarsi con impronta automotivazionale in streaming rischia di sembrare non atto di forza, non più, ma iperbole di debolezza (lui l’ha fatto due giorni fa, da una riunione di maggioranza in Comune). Pareva infatti la soluzione delle soluzioni, la novità che tutto sbaraglia e tutto risolve, lo streaming, arma letale dei tempi grillini (quelli tonitruanti del 2013) e ben presto boomerang per i suoi stessi entusiasti adepti: tutti ricordano la Roberta Lombardi maestrina e il Vito Crimi mezzo addormentato al cospetto di un Pier Luigi Bersani sconsolato o di un Enrico Letta professorale, e le tragicomiche assemblee a Cinque stelle pre e post espulsione di deputati e senatori rei del reato di talk-show, con quel Marino Mastrangeli da Frosinone assurto tra i miti del trash per l’autodifesa spaghetti-western davanti all’accusa grottesca (comparsata da Barbara D’Urso). E quante liti su portavoce, scontrini, buone intenzioni, pensieri unici e cene del parlamentare troppo costose agli occhi dei follower-cittadini, collegati e illusi di contare di più grazie al teorico potere di clic (pollice verso, magari): era quasi come assistere a una corrida, a una lotta di gladiatori nell’arena, ma quanta assurdità subito evidente in quel recitare per potersi dire “trasparenti”. Ciò che è trasparente alla fine perde fascino, come in amore, come si è appreso da nonni o giornaletti adolescenziali che dispensavano consigli per lo più disattesi: non dite, non mostrate, non fate capire, che siano gli altri a scoprire, a pensare, a incuriosirsi, che siano gli altri ad andare a cercare la verità, se c’è. Perché alla fine non è certo verità lo spiattellamento di massime (“dobbiamo lavorare meglio tutti insieme”, ha detto Marino, anche sinceramente accorato, ottenendo per lo più sbadigli mentali negli astanti).

 

Rischia di dissolversi in nulla, la trasparenza, ché nulla davvero può essere deciso sotto gli occhi di tutti, e il segreto è (per fortuna) incancellabile, in campo politico come in campo privato, difeso da chi ha il potere e vituperato da chi vede come panacea di tutti i mali la possibilità di violare i cosiddetti “Bilderberg”, stanze dove le eminenze grigie, secondo la ricorrente leggenda metropolitana o la parziale realtà dei fatti, decidono non viste chissà cosa o qualcosa, e tengono nascosto il necessario o il superfluo o ciò che nuoce alla sicurezza o ciò che fa comodo, a seconda dei punti di vista e delle ricostruzioni arbitrarie. Nessuna intercettazione, infatti, riesce davvero a far capire l’interezza, nessun vero contesto appare, in tutta quella presunta trasparenza, e l’illusione di conoscere confina con l’instupidimento per troppe informazioni. Informazioni che dicono apparentemente tutto, ma forse anche niente.

 

Sdegnatissimo è, intanto, il presidente francese François Hollande, accortosi di essere stato spiato dalla Nsa americana, ma nessun report da Wikileaks riesce a convincere fino in fondo i cittadini e i follower che gli eroi della trasparenza totale, i Julian Assange e gli Edward Snowden, anche protagonisti di film e documentari da Oscar in loro onore, siano davvero eroi positivi. Pubblicare tutto, non pubblicare niente, porsi il problema: chi non se lo pone non sarà piuttosto un profeta di future distopie, mondi tipo quello descritto da Dave Eggers nel romanzo “Il Cerchio”, roba che neanche Gianroberto Casaleggio sul pianeta Gaia? Perché è proprio l’ossessione per la trasparenza a tramutarsi in orrore nel “Cerchio”, azienda delle meraviglie (apparenti) grazie alla pretesa di pulizia e amicizia universale: tutti connessi, anche nel tempo libero, tutti in piazza e tutti sugli schermi, tutti in streaming e in collegamento simultaneo su ogni possibile aggeggio computeristico e telefonico. Sembra talmente il paradiso, l’azienda senza porte e senza finestre – di vetro i muri, di vetro i pavimenti – che a un certo punto diventa modello per la politica: ecco la parlamentare americana che decide di imitare la cavia del Cerchio, l’Uomo Trasparente che se ne va in giro tutto il giorno con una videocamera al collo, e la Donna Trasparente che sul polso ha un orologio-display (tipo l’Apple watch in arrivo nei negozi), infernale monitor che dice tutto a tutti: battiti cardiaci, stato di salute, conversazioni effettuate, post, foto, tweet, controtweet, clic di gradimento e non gradimento, e inviti a improbabili brunch portoghesi in California, tra conoscenti web che non si sono mai incontrati vis-à-vis. Il tutto con gentile obbligo di risposta, unica passaword e unica identità digitale, pena l’ostracismo, la gogna internettiana e la perenne dannazione. I politici del Cerchio si autocondannano, pur di essere detti “trasparenti”, all’omologazione da streaming: “I cittadini devono sapere cosa stanno facendo i loro rappresentanti”, dice non una Cinque stelle sbarcata a Roma ma la deputata-cavia del romanzo, convinta che sia “diritto” del cittadino “sapere come passano il tempo i politici”, “chi incontrano”, “con chi parlano, cosa fanno con i soldini dei contribuenti… e perché devono incontrarsi con quell’ex senatore che oggi fa il lobbista…”. E quel deputato, si chiede la cavia volontaria, “come ha fatto a mettere insieme i 150 mila dollari che l’Fbi gli ha trovato nascosti nel frigo?”. Va a finire che tutti i politici si attaccano la videocamera al collo, e sì, qualcuno anche nel romanzo solleva il problema della privacy (“La privacy è furto”, è lo slogan dei pasdaran del Cerchio), ma senza molti risultati: “… Anche se alcuni cittadini e commentatori erano contrari, affermando che il governo, a ogni livello, aveva sempre avuto bisogno di fare delle cose in privato per non compromettere la sicurezza e l’efficienza, la spinta presa dall’iniziativa travolse tutti questi argomenti… Se non agivi alla luce del giorno, che cosa facevi nell’ombra?”. E chissà se sotto la luce abbacinante del Cerchio, luogo protetto e infernale di segreti e amori stroncati dalla paura di un mancato “like” su Facebook, avrebbero potuto circolare tranquilli i sostenitori della realpolitik, per lo più serafici ambasciatori e commis de l’Etat che qualche giorno fa, all’idea di un Hollande spiato – immediato scandalo su Wikileaks – hanno detto ai cronisti che sì, vabbè, certo, Wikileaks, tutto online, come no, ma in fondo cosa c’era di così scandaloso, spiare si spia da che mondo è mondo.
Nella Terra sotto streaming, uno streaming che ha già annoiato nei reality-show, dove il “Grande Fratello” deve reinventarsi per non soccombere al calo di ascolti, nessun film potrà più descrivere lo spione come un travet certosino dell’intercettazione. Questo era il Gerd Wiesler de “Le vite degli altri”, film del 2006 in cui un agente della Stasi, a forza di stare incollato alla cornetta per carpire i segreti dell’intellettuale neanche tanto pericoloso per le sorti della Ddr, resta psicologicamente irretito dal quell’universo di artisti liberi e libertini così diversi da lui, che una vita non ce l’ha, e finisce per rubare il libro di Bertolt Brecht che tanta importanza sembra avere per gli spiati, diventando sotterraneo complice dell’uomo indicato dai suoi superiori come “nemico”.

 

C’è, oggi, quest’ossessione della casa di vetro – che sia il Parlamento, il comune, la famiglia, persino il negozio temporaneo in plexiglass della Stazione Centrale di Milano, alloggio di passaggio per immigrati nei giorni duri della lotta sulle “quote” che spettano ai paesi europei riluttanti. Ma lo streaming come garanzia preventiva di purezza si è già trasformato in specchio che mostra non la sicurezza, non l’orgoglio, ma il trucco che cola, il momento triste dello spegnimento delle luci, il tentativo quasi disperato di convincere gli inconvincibili: “Ci sono tutti i presupposti per far bene, per fare in modo che la nostra città sia un esempio per il paese”, dice Marino mentre tutto attorno frana, e parla di buche e trasporti ed elenca le cose fatte e non si sa se parla a se stesso o ai Palazzi, mentre ripete sotto occhio di telecamera che lui, il sindaco, “ci crede davvero tanto” nei consiglieri con cui magari ha avuto “discussioni molto forti”, ma discussioni che “gli sono piaciute perché sincere, dirette”.
Streaming chiama streaming, ma sotto dilaga il nonsense. “Dopo Mafia Capitale la città si è fermata, ma era necesario per garantire trasparenza”, dice sempre il sindaco di Roma, anche se la sensazione generale, dopo le liste nere sui circoli pd di Fabrizio Barca, roba da Cerchio di Eggers anzichenò, è che la telecamera durante la riunione politica faccia soprattutto rimpiangere i sotterranei da Prima Repubblica, dove la corrente incontrava la sottocorrente e la geometria del congresso cambiava per la soffiata dell’uomo misterioso passato a sorpresa al nemico, e per scaltrezze da occultare accuratamente, come patti e pranzi e cene scoperte dai segugi, magari, ma non per questo foriere di inni al “tutto in piazza”. Ai piani alti c’erano scandali anche grossi, dal Watergate in giù, con gole profonde ed emersione del sommerso, ma mai e poi mai, si sospetta, ci si sarebbe ridotti, spioni e spiati, a rendere di dominio pubblico la necessaria segretezza dell’essenziale.

 

“Tutto quello che succede dev’essere conosciuto”, dicono i sottomessi alle leggi del Cerchio, e questo si spera di fare oggi, spesso invano: il segreto è talmente connaturato alla vita, pubblica e privata, pena l’ingestibilità del tutto e la riduzione di ogni discorso a fuffa retorica, che sopravvive a qualsiasi ondata anticasta o antibugia che dir si voglia, in casa e fuori (orde di impiegati si sono chiesti con sgomento, giorni fa: “Ma che davvero con questo Jobs Act in azienda ci leggeranno tutte le e-mail?”). E quando si è parlato, anni fa, di mettere online i compensi dei conduttori e direttori Rai, la sollevazione generale è stata immediata. Nelle case, poi, cadono nel vuoto i tentativi genitoriali di aggirare l’antica regola dei tempi non digitali – “mai aprire un diario di un figlio adolescente” – attraverso l’invenzione di finte identità online o tramite decrittazione delle chat lasciate incustodite: la volontà di restare segreti è sempre più forte della smania di trasparenza (Eggers direbbe: del desiderio di “luce perenne”).

 

[**Video_box_2**]Streaming chiama streaming, si era evidentemente pensato anche nel Pd neorenziano, con o senza Beppe Grillo come partner della drammaturgia (la volta in cui Grillo guidò sei ore da Genova a Roma soltanto per alzarsi e andarsene davanti al Renzi premier) e con o senza intendenti a Cinque stelle che dialogano a intermittenza (la volta in cui, l’estate scorsa, toccò ai cittadini e follower di seguire online soporifere discussioni sulla legge elettorale tra Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, da un lato, e Alessandra Moretti, Debora Serracchiani e lo stesso Renzi dall’altra). Per non dire delle più recenti direzioni pd in streaming, regno del Vincenzo De Luca istrione: nessuna lista di “indesiderabili” ha potuto contro la messa in scena dell’eletto governatore campano sgradito a Rosy Bindi che si autodifendeva sotto gli occhi degli internauti al grido di “neanche a Totò Riina…” (un simile trattamento, ndr). Ed è cominciata appunto con lo streaming la débâcle dei grandi sogni casaleggiani. Lì, sotto la fissità dell’occhio digitale, gli eletti a Cinque stelle sono parsi subito, dal primo istante, congelati nell’assurdo. Assurdo del “no” a tutto e tutti, assurdo del dover rappresentare pubblicamente una decisione dei due che valevano più degli altri (Grillo e Casaleggio), ma come fosse decisione dell’“uno che vale uno”. Ed è nello streaming che emergono impietosamente le piccole vanità, insopprimibili quanto i segreti, vanità di questi e di quelli, tic di questi e di quelli, slide contro selfie contro sorrisi contro invettive, facce accorate (Marino) contro facce spavalde (Renzi) contro facce spiritate (Grillo), tutto trasparente ma tutto in qualche modo finto. Tutta roba interessante per il sociologo, il pettegolo, il curioso, ma probabilmente ininfluente a determinare una qualsiasi realtà – che infatti continua a determinarsi all’ombra degli schermi, dei teleschermi, dei display e delle pubblicità automaticamente generate da un clic sul motore di ricerca. “Cos’avrebbe da dirmi qualcuno in segreto che non possa essere detto anche in pubblico?, dice la deputata-cavia del Cerchio di Eggers, e il farsi vedere sotto streaming pare subito il suggello dell’essere sotto schiaffo.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.