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Piccola Posta
La storia di Ala Faraj e la gratuità della grazia, con tutti i suoi paradossi
Sebbene si sia chiarito che la grazia possa essere concessa anche d’ufficio è restato implicito che non possa essere concessa a chi, condannato con sentenza definitiva, continui a dichiararsi innocente. Pena il disconoscimento dell’autorità dei giudici autori della condanna
Un buon segreto del giornalismo, ormai seppellito nel guazzabuglio degli spazietti e delle sovrapposizioni, stava nella composizione, nel montaggio ragionato degli argomenti imprevedibilmente e sottilmente affini. Ieri la prima pagina di Repubblica accostava, forse per caso, un articolo di Massimo Recalcati sulla gratuità del dono, e uno di Concetto Vecchio sulla grazia parziale concessa da Mattarella: “C’è Ala Faraj tra i graziati da Mattarella”. Recalcati – che spinge il suo programma fino a un proposito insostenibile come “la cancellazione del nostro ego”: cui non basterebbe nemmeno l’anonimato, perché l’ego conosce anche il compiacimento solitario – trasferisce il punto sull’amore, e conclude: “... il dono ha nella cultura giudaico-cristiana la forma della grazia insondabile. E’ il dono dell’incontro imprevisto, della possibilità inaudita, dell’occasione che non attendevamo e che eccede ogni previsione e ogni calcolo. Come quando si dice: ‘E’ stata una grazia averti incontrata, un vero dono’”.
Ora, la Costituzione repubblicana ha riconosciuto al Presidente della Repubblica il potere di grazia. Al di là dei triviali tentativi di espropriarlo, finalmente sventati, la grazia nelle mani del Presidente ha condizioni straordinarie. Non riesce a essere un vero dono, che per la sua gratuità viene da un impulso e non passa attraverso procedure che lo motivino. Né può essere anonimo, spettando al contrario al nome e cognome della sola persona che ne dispone, in ragione della carica che ricopre e solo fin tanto che la ricopra. Dunque è un atto in cui la mano sinistra deve sapere, e far sapere, quello che fa la mano destra. Una conseguenza è che il Presidente della Repubblica non può rinunciare pienamente alla gratitudine delle persone – individui condannati con sentenza passata in giudicato – cui la grazia è destinata. Ciò associa eccezionalmente, per ricordare questa bellissima formula, la grazia a un peso, a una pesantezza.
Non sono certo queste le cause di un’antipatia per figure denunciate come retaggi superati dell’antico regime, la grazia, i senatori a vita, l’indipendenza dei magistrati. In nome della limpidezza delle prerogative e dell’operato di organi rappresentativi, il più solenne dei quali è il parlamento. Tragicomica situazione, dal momento che il parlamento, che dispone di una specie di potere di grazia assai più vasto e impersonale, come quello delle misure di clemenza, l’amnistia, che estingue il reato, e l’indulto, se ne è di fatto spogliato il 6 marzo del 1992, quando decretò una legge di revisione costituzionale che sottoponeva amnistia e indulto non più a una decisione di maggioranza semplice, ma a una maggioranza introvabile dei due terzi di ciascuna camera, e per ciascun articolo. Quel cambiamento, una pietra sopra, fu votato per alleviare lo stesso parlamento dalla pressione delle inchieste cosiddette di Tangentopoli. Dopo l’amnistia monstre del 1946, l’ “amnistia Togliatti”, e fino al 1992, ci furono altre 23 amnistie. Da allora, per 32 anni, nemmeno una. (E un solo indulto parziale, nel 2006).
C’è un’altra paradossale condizione al potere di grazia presidenziale. Sebbene si sia chiarito che la grazia possa essere concessa anche d’ufficio, senza cioè la richiesta del suo eventuale beneficiario, è restato implicito, e anzi esplicitamente dichiarato da alcuni presidenti più spericolati, come Oscar Luigi Scalfaro – pubblico accusatore dell’ultima pena di morte nell’Italia del 1945 – che la grazia non possa essere concessa a chi, condannato con sentenza definitiva, continui a dichiararsi innocente. Pena il disconoscimento dell’autorità dei giudici autori della condanna: la grazia, si dice, non può essere un ulteriore appello. L’ipocrisia dell’argomento è invincibile. Tutti sanno, a partire dai professionisti del ramo, che i condannati non colpevoli sono spaventosamente numerosi, e a volte, raramente, stentatamente, riconosciuti tali dalla stessa magistratura, con riparazioni intervenute, come per Beniamino Zuncheddu, dopo 33 anni di galera. La verità dell’argomento sta nell’obbligo che il Presidente della Repubblica, titolare del potere di grazia, non lo eserciti nei confronti di una persona innocente, e debba comunque ignorarne l’eventualità. Ovviamente, Mattarella ha fornito, per ciascuna delle cinque grazie diverse comunicate ieri, motivazioni accuratamente estranee al giudizio di colpevolezza. Nel caso della più delicata, la grazia parziale al trentenne libico Ala Faraj, la decisione è stata corredata di considerazioni numerose e convergenti sul contesto, come ha osservato Concita De Gregorio: l’età al tempo del reato – 19 anni – il comportamento seguito negli oltre dieci anni di detenzione, l’opinione di educatori, giudice di sorveglianza, ministro della giustizia... E un dato in più, singolarissimo, che smentisce la non interferenza con le prerogative rispettive fatta valere per il Quirinale: i giudici della revisione che, rigettandola per Ala, avevano definito lui e i suoi compagni “moralmente non imputabili” e messo per iscritto la raccomandazione di un ricorso alla grazia presidenziale. Un gesto apprezzabile o, se preferite, un gioco delle parti.
(So di che cosa parlo. Nel processo di revisione, rigettata, che riguardò me e i miei coimputati, la Corte mise per iscritto l’auspicio che intervenisse un provvedimento di grazia nei nostri confronti. Non dubitai per un momento che, quanto a me, non sarebbe avvenuto. Una volta, nel 2013, conclusi un articolo su Repubblica scrivendo che mi rallegravo di essere restato disgraziato, e che avrei vissuto malamente da graziato. Il presidente Napolitano mi scrisse quella mattina stessa: “Caro Sofri, grazie. Ho apprezzato il tuo articolo di questa mattina. Dalla prima riga all’ultima. Cordialmente, Giorgio Napolitano”).
Per finire. Sono tra i non pochi che, grazie anche al bel libro di Ala Faraj, “Perché ero ragazzo”, pubblicato da Sellerio, si sono informati come meglio potevano della sua storia, hanno letto le carte processuali, si sono persuasi della sua estraneità alle accuse e dell’enormità scandalosa della condanna, per lui e per i suoi amici. Persone diverse, da don Ciotti a Gustavo Zagrebelsky, all’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, a molte e molti altri. Vedo che la mezza misura, che in questo caso è un bicchiere mezzo pieno e benvenuto, del terzo di pena condonato ad Ala eccita, annotano d’ufficio le cronache, mugugni e “perplessità” della Lega. Riflessi automatici, tanto più quando entra in gioco la parola magica “scafista”. Ma continua a meravigliarmi che anche nella Lega, anche in Matteo Salvini, non intervenga una tantum una curiosità, un desiderio, di guardare a una vicenda umana, di farsene un’idea, di lasciarsene toccare, e di rallegrarsi perché un suo simile, un giovane calciatore mancato, ha forse avuto salva la vita. Non mi aspetto che faccia festa in pubblico, Salvini o altri dei suoi. Dopo tutto, per sé l’ha fatto. Può dirlo a un suo figlio, a bassa voce, alla sua ragazza. Può dirselo. Una volta tanto.