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Piccola Posta
Fuori Yermak, dentro Zaluzhny. L'ora di fare i conti col popolo
L'accantonamento del capo dell’Ufficio presidenziale era da tempo l'auspicio di una parte crescente degli ucraini. Se non si riconosce questa situazione si lascerà campo libero alla versione secondo cui la sostituzione incombente di Zelensky è il suggello di una vicenda orchestrata dai burattinai “occidentali”
Immaginate una tangentopoli celebrata in un paese bombardato da quattro anni. Esce Yermak, entra – ma era solo in panchina – Zaluzhny. Lo fa con un lungo intervento che ricostruisce l’intera storia, dalle premesse agli anni successivi all’invasione. Lo fa sotto il velo, però trasparente, della valutazione tecnicamente militare, Clausewitz compreso, ma con una dichiarata rivendicazione politica. La guerra, insegna Clausewitz (e prima di lui Machiavelli, le situazioni cambiano e gli uomini restano uguali…) “è soggetta a cambiare, e questi cambiamenti avvengono in conformità coi cambiamenti in politica”. La guerra, spiega, può essere “per la sconfitta”, o “di attrito” – di movimento o di posizione, circa. La Russia si era a lungo e pesantemente preparata, a differenza dell’Ucraina, mirando alla penetrazione rapida fino a Kyiv e alla disfatta della resistenza ucraina, ammesso che ci fosse, a differenza che in Crimea. La resistenza degli ucraini, “eroica”, combattenti e popolo, ha costretto, alla lunga, alla guerra d’attrito. Zaluzhny sta attento a che la ricostruzione mostri un andamento militare efficace finché è dipeso da lui, e inadeguato prima e dopo. E comunque l’andamento militare è sempre una variabile dell’intenzione politica.
Un esercito è forte quando e quanto è forte il suo retroterra civile, sul quale si misura la mobilitazione – che lui pretendeva. “Senza il sostegno pubblico, è impossibile condurre una guerra con successo. E forse la principale forma di questo sostegno pubblico è l’atteggiamento della società, in primo luogo verso la mobilitazione, che cominciò ben presto a mancare”. Non dice se si arrischierebbe anche nella situazione attuale a decretarla: Zelensky sa che se lo facesse non durerebbe un minuto di più, e se ne è guardato in passato, limitandosi ad abbassarla dai 27 ai 25 anni (e per i soli maschi). Mette in guardia da una ricerca affrettata della pace nella situazione attuale, che condurrebbe a una sconfitta devastante e alla perdita dell’indipendenza. Cita, perché gli europei intendano, Benjamin Franklin: “‘Chi baratta la libertà per una sicurezza temporanea non merita né la libertà né la sicurezza’: e questa è oggi la politica degli Stati Uniti in Europa”.
Quella di Zaluzhny è una chiara autocandidatura, ma rinviata a quando sia stata conclusa la pace – da altri, dunque. E’ una loro gatta da pelare. Allo stesso tempo, fissa alla sicurezza del paese condizioni che sembrano irraggiungibili: l’ingresso nella Nato, la dotazione di armi nucleari o – meno impossibile questa, e anzi ragionevole – la presenza di forze armate alleate sul suolo ucraino. Del tracollo attuale della leadership di fatto, dice che il dopoguerra sarà l’occasione per “un cambiamento politico, profonde riforme, una piena ricostruzione, una crescita economica e il ritorno dei cittadini”, e che dovrà “rafforzare le fondamenta della giustizia attraverso la lotta contro la corruzione e la creazione di un sistema giudiziario onesto”.
Ma Zaluzhny riserva il suo colpo gobbo all’ultima parte dello scritto, facendolo passare con naturalezza come la menzione di un ulteriore paragrafo del manuale di strategia. In una situazione di stallo, la Russia punta a fomentare la guerra civile. Questa formula è difficilmente pronunciabile – noi italiani lo sappiamo bene, e sappiamo anche che una volta pronunciata vale a illuminare le cose senza ridurre di un pollice la distinzione fra la parte giusta e la sbagliata. Pronunciata oggi in Ucraina, costringe a chiedersi se stia nel conto delle possibilità, se non delle probabilità. “Una pace senza garanzie di sicurezza e senza efficaci programmi finanziari, porterà certamente la guerra con la Russia alla prossima fase: una guerra civile”.
Le guerre non finiscono sempre – anzi, quasi mai – con la vittoria degli uni e la sconfitta degli altri. E anche la perdita del Donbas non equivarrebbe alla sconfitta. “La vittoria è il collasso dell’Impero russo, e la sconfitta è l’occupazione completa dell’Ucraina dovuta al suo proprio collasso. Tutto il resto non è altro che la continuazione della guerra”. In cauda venenum, Zaluzhny finisce con una citazione che dice: “Gli stati non si reggono sulle dinastie, ma sull’unità e la forza interna del popolo” (è, non a caso, di una poetessa ucraina nazionalista, collaborazionista e antisemita, uccisa nel 1941 dai tedeschi. Chi conosce i testacoda di quella storia non se ne meraviglierà).
Nove giorni fa, aspettandomi il licenziamento di Yermak, avevo scritto che, salve tutte le differenze, “in un paese provato e unito da una guerra lunga e micidiale ma esasperato dai sospetti e dalle delusioni, la caduta in una resistenza e in una Salò è in agguato”. Il tono delle voci ucraine, come si può ricavare dei social, gremiti come mai, è segnato via via dal sarcasmo, dalla rabbia, dalla frustrazione e dall’invettiva esasperata che ha rotto ogni argine, e si esprime liberamente e licenziosamente. A tenerlo di qua da una voglia di guerra civile sta il disordine, irriducibile a due schieramenti. Arnesi come Poroshenko possono mestare nel torbido, non riprendere la mano. Si coagulerebbero se apparissero a capeggiarli figure adatte all’esasperazione. A molti sembra ancora responsabile tenere in sella Zelensky, in una tale crisi. Altri pensano che un successore avrebbe mani libere e impregiudicate. E ci sono i militari. Anche Yermak, che si è detto offeso e in partenza per il fronte (chi si arruola, gli hanno rinfacciato, è esonerato da conseguenze giudiziarie).
Le persone che hanno solidarizzato con la causa della libertà ucraina non devono dimenticare che l’allontanamento di Yermak da un potere sempre più invadente era da tempo l’auspicio dichiarato di una parte crescente dei cittadini ucraini. Se non si conosca e riconosca questa situazione, si lascerà campo libero alla versione secondo cui l’accantonamento di Yermak e la sostituzione incombente di Zelensky sono il suggello di una vicenda tutta orchestrata dai burattinai “occidentali”: una discesa agli inferi di un popolo per procura. Una maggioranza di ucraini ha commentato: “Finalmente!”. Moltissimi avranno commentato anche: “Tardi”. Che sia stato troppo tardi, si vedrà. Comunque i conti continueranno a regolarsi con la gente ucraina, che ha e vuole avere, nel momento più rischioso, voce in capitolo.
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