
Una scena di "Confidential Agent", film tratto dal romanzo di Graham Greene
Piccola Posta
Il mondo di "Missione confidenziale" e quello di oggi
Graham Greene lo scrisse nel 1938, il libro uscì l'anno dopo. Il protagonista D. (un agente segreto) viene da un paese in guerra civile, le cui condizioni sono molto simili a quelle del conflitto spagnolo. Arriva a Londra: un altro mondo, un luogo di pace, su cui però incombe minacciosamente una guerra mondiale. Fino a che punto il proprio tempo è dopoguerra? E quando diventa anteguerra?
Ci sono insegnamenti utili da ripassare: “E’ uno sbaglio sottovalutare l’ignoranza della classe dirigente. Non era stata Maria Antonietta a dire dei poveri: ‘Perché non mangino brioche’?” Arriva un nuovo Graham Greene e ci si prende un mercoledì libero. E’ “Missione confidenziale”, nella Memoria Sellerio arrivata all’undicesimo titolo. Uscì nel 1939. In Italia nel 1954, per la Medusa, tradotto da Giulio De Angelis. Qui la traduzione è quella di Adriana Bottini, per il Greene nei Meridiani. Il contesto somiglia a quello attuale in modo allarmante. C’è un protagonista, D., agente segreto suo malgrado, di suo filologo medievale e scopritore ed editore del Codice di Berna, il manoscritto più completo e verace della Chanson de Roland. Viene da un paese in guerra civile, sta dalla parte del governo legittimo contro i ribelli: situazione strana, ma corrispondente a quella della guerra civile spagnola, col legittimo governo repubblicano contro i golpisti di Franco.
D. va in missione a Londra, dove in passato ha insegnato lingue romanze al British Museum, ha l’incarico di acquistare il carbone cui è legata la sopravvivenza del suo paese, in gara con gli emissari dei nemici. Sta dalla parte del suo governo senza ritenerlo migliore, ritenendo migliori quelli che il suo governo, anche ingannandoli, pretende di rappresentare. Ha già pagato carissimo, sua moglie è stata fucilata “per errore”, lui è sopravvissuto sotto le macerie della casa bombardata, la guerra civile non è solo la più feroce, è anche la distruzione di qualunque fiducia reciproca di capi e di gregari, la diffidenza il sospetto la compravendita universale. Londra è l’altro mondo, un’inconcepibile pace, un imperversare di riti e tic radicati e futili, come sarebbe oggi a chi ci arrivasse da Gaza o da Kharkiv o da Khartum. Con una nuvola scura: che sulla Londra sicura del suo passato e capricciosamente orgogliosa incombe, nel 1938 in cui Green scrive e nel 1939 in cui il libro esce, una guerra mondiale. E oggi? Quando è che il proprio tempo è ancora un dopoguerra o è già diventato un anteguerra?
Ma il libro è una rocambolesca storia di spie, intrighi, energumeni e creature innocenti, fatto per il diporto di scrittore e lettore. Lettrice. C’è una protagonista almeno importante quanto D, ha vent’anni, si chiama Rose, è bellissima, ricca, viziata, insopportabile, improvvisamente romantica, tipicamente generosa. Stanno come allo specchio: "‘Tesoro’ disse D., ’tu non hai idea di com’è la vita laggiù’. Lui udì un lungo sospiro acuto: ‘E lei non ha idea di com’è qui’.” Un modello di dialogo attuale sul rapporto fra occidente e no. C’è una ragazzetta quattordicenne, Else, innocente e devota fino al sacrificio, una da Povera gente, una Sonja.
Greene scrive di mattina, alla svelta, per il divertimento proprio e altrui, e per far posto alla scrittura lenta e meditata del pomeriggio, dedicata al “Potere e la gloria”, il gran romanzo della persecuzione, della conversione, del martirio e del peccato, degli argomenti massimi. La scrittura della mattina corre così veloce da accumulare i colpi di scena, gli agguati, le fughe, e da fottersene della verosimiglianza. D. è continuamente sul punto di essere liquidato - alla sua ultima volta. (“Una sfilza di guai da cartone animato”, Scarpa). D., che già il passato prossimo burrascoso e la mezza età hanno provato, viene massacrato di botte, tumefatto, due molari in meno, e il giorno dopo, benché rinunci a una colazione regolare, può baciare Rose. Come al teatro dei pupi, e proprio di questo si tratta. Nel suo Codice di Berna l’eroe autentico non è Orlando, che rifiuta di suonare il corno per chiamare al soccorso, come gli chiede Oliviero, e lo fa solo alla fine, quando tutti i suoi sono morti o moribondi e anche lui sta per morire, e “ha il sangue che gli cola a rivoli dalla bocca, ha la testa fracassata”, e potrebbe ancora suonare l’Olifante - e baciare Rose. (L’eroe è Oliviero, che non ha anteposto la propria vanagloria alla salvezza degli altri e alla vittoria delle fede, e decide di trafiggere Orlando, il suo campione). D.-Oliviero non riuscirà a combinare granché della sua missione, se non per incidente, e fallirà anche quando si affiderà ai minatori di carbone illusi d’essere sottratti alla fame la mortificazione e la chiusura dei pozzi, e indifferenti alle sorti dei loro fratelli del paese di D. D. non può essere un salvatore, è uno che porta con sé l’infezione della guerra e della disumanità, il contagio della rovina. Fa pensare ai migranti come ad altrettanti agenti segreti di una partita perduta, rassegnata, con qualche improvvisa implausibile velleità di rivalsa. Fra l’ammirazione per una civiltà solida (” Davvero l’Inghilterra avrebbe mantenuto una certa stranezza fino all’ultimo: le eccentricità di una nazione che da due secoli e mezzo godeva di pace interna”), e il tradimento di una bambina e la decisione di “impedire il ritorno di una ‘civiltà’ come questa nel mio paese”. A uno abituato alle macerie può venir da pensare che i bombardamenti siano uno spreco di tempo. “Un mondo in rovina lo si poteva ottenere semplicemente lasciandolo perdere”.
C’è una bella prefazione di Dario Ferrari. E una ennesima preziosa postfazione di Domenico Scarpa, che sta scrivendo a puntate il suo libro capitale su Greene. Questa è la puntata sulla bigamia universale. Ci sono momenti di felicità, nella lettura. Per esempio, in un inseguimento di auto, una vecchia Packard e una Daimler, che “parve esitare per una frazione di secondo, poi per così dire tirò indietro le orecchie e scattò a ottanta miglia all’ora”. Per così dire.