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Piccola Posta

Tutti i motivi che mi impediscono di chiamare genocidio quello a Gaza

Adriano Sofri

I pro Pal vedono la spietatezza tracotante dei ministri fascisti e razzisti di Israele, la prepotenza anonima dei bombardamenti, la precisione terrorizzante delle operazioni speciali. Non vedono la sete di sangue dei guerrieri pseudoislamisti

Anna Foa ha detto martedì a Repubblica: “Io la parola genocidio finora non l’ho usata, ma quello che vediamo penso che ci si avvicini molto. Stiamo andando nella direzione di una pulizia etnica”.  Per qualunque altra situazione simile a quella che via via è diventata la reazione del governo e dell’esercito israeliano all’assalto di Hamas, io avrei senz’altro impiegato il nome di genocidio. Perché non l’abbia fatto è una buona parte della questione.

Paolo Mieli ha detto che quanto a lui il nome di genocidio va sventato, perché implica l’assimilazione con la Shoah. Non è così. Lo sarebbe per chi facesse coincidere la cosiddetta unicità della Shoah con la nozione di genocidio, e vedrebbe dunque una dissacrazione nel suo ulteriore impiego. Ma i genocidi sono, purtroppo, se non tanti, troppi. Lemkin coniò la parola avendo come “prototipo” il genocidio armeno – che fu il modello dello stesso Hitler. Dopo di allora, tribunali internazionali hanno decretato genocidio il mattatoio del luglio 1995 a Srebrenica, lasciando il resto della storia alla formula della pulizia etnica. Genocidio è stato decretato quello perpetrato dagli Hutu sui Tutsi in Ruanda (1994), dal Tribunale di Arusha. Poiché quella definizione implicava l’obbligo agli Stati Uniti di intervenire, Bill Clinton le ballò attorno, salvo visitare il Ruanda di Kagame a cose fatte e chiedere perdono per l’omissione. Genocidio è stato decretato da un tribunale ad hoc, ma nazionale, quello cambogiano (1975-1979), contro minoranze e soprattutto contro i dissidenti, gli istruiti, gli abitanti delle città, gli esemplari di “uomo vecchio”. E la lista è più lunga. Dunque l’impiego del nome di genocidio non porta necessariamente ad assecondare la nazistizzazione di Israele, che pure è il piacere di un esorbitante numero di pro-palestinesi, innamorati della metamorfosi delle vittime (ebraiche) in carnefici (nazisti, poiché altri carnefici, a cominciare dagli stalinisti, e non solo per il Holodomor ucraino, non accedono al casting). 


Gli esempi sanciti dalla giustizia internazionale, oltre che dalla storia più seria, mostrano che non è necessario all’imputazione di genocidio un progetto di liquidazione totale di una popolazione o di una presunta “razza”, e tanto meno la sua riuscita. Basta il proposito e la pratica della cancellazione culturale o della deportazione o della sostituzione demografica di una popolazione, come quella perseguita metodicamente dalla Cina nel Tibet. La smisuratezza delle vittime civili a Gaza (che resta tale anche se si dimezzi la cifra fornita da Hamas) e l’esplicito programma di cacciata della popolazione, enunciato perfino briosamente dal padrino Trump, con l’aggiunta ripugnante dell’affamamento, sono sufficienti a sollevare l’interrogazione sul genocidio, oltre alla evidente constatazione degli altri addebiti, che gli sono solo simbolicamente inferiori, come i crimini di guerra e contro l’umanità. 


Che cosa dunque mi ha trattenuto dal nominare il genocidio? Non – non più, almeno – la preoccupazione di prestare il fianco all’antisemitismo, che viceversa fa baldoria delle reticenze. Da nove decimi dei 600 e più giorni trascorsi dal 7 ottobre sarei stupito e addolorato di sapere di un solo ragazzo, una sola ragazza, che non guardi con scandalo sdegno e vergogna a quello che soffrono i gazawi. Per tanti di quei ragazzi la reticenza altrui vale un’autorizzazione a figurarsi l’avversione a Israele e agli ebrei come una forma militante di antifascismo, e la solidarietà coi palestinesi come una forma di resistenza. Una ragione, non di principio ma di opportunità, sta nella diffusa feticizzazione del nome di genocidio, che segna un solco fra chi, dalla stessa parte, accetta o rifiuta di impiegarla: che vuol dire da Liliana Segre, o da Edith Bruck. Proprio negli ultimi giorni, da quando l’argine ha ceduto di colpo e in tutto il mondo, fa mostra di sé una accanita gelosia di pro Pal “di sempre”, che piuttosto che allargare le file ripudiano i nuovi arrivati, almeno fino a che, come nelle risse di ragazzi, non abbiano detto “Mi arrendo!” - “Genocidio!” 


Un argomento rilevante, benché ambiguo (una minaccia sul futuro contro una realtà presente), è la consapevolezza di che cosa sarebbe di Israele se i nemici da cui è circondato arrivassero mai a disporre di una forza sufficiente, a tenere il coltello dalla parte del manico. I pro Pal, fanatici o commossi che siano, sembrano ignorarlo. Vedono la spietatezza tracotante dei ministri fascisti e razzisti di Israele, la prepotenza anonima dei bombardamenti, la precisione terrorizzante delle operazioni speciali – i cercapersone degli Hezbollah – non vedono la sete di sangue dei guerrieri pseudoislamisti. Credono – largamente sopravvalutando – ai sondaggi sul favore degli israeliani per lo svuotamento di Gaza, non si interrogano sulla voluttà della folla di infierire su una ragazza violata e ridotta a un manichino, da una festa da ballo a una carretta da gogna. Ciò non toglie che i civili di Gaza non siano colpevoli, anche quando parteggino fervidamente per Hamas. Così come non sarebbero colpevoli i civili israeliani, anche quella minoranza – inferiore al 30 per cento – che parteggia per Netanyahu. Tanto più che il bracconaggio del 7 ottobre infuriò contro israeliani per lo più pacifisti di sentimenti e di azioni. Insomma, chi teme per la sopravvivenza di Israele e sa che essa è in causa, da sempre, esita a dissociarsene combattivamente per l’angoscia di condividere una parte di responsabilità della sua rovina futura. Questo è un gran pezzo del ricatto di Netanyahu e del suo gioco al rincaro. Ripete Giuliano Ferrara che gli ebrei non vennero mandati ad Auschwitz dopo aver compiuto un loro 7 ottobre contro la Germania nazista (o l’Italia fascista), né dopo che loro capi avessero proclamato la volontà di cancellare dalla carta geografica la Germania, dal Baltico alle Alpi. E’ vero, ma sbatte contro l’evocazione del passato, della Nakba, della recinzione, delle violenze e delle invasioni dei coloni, della proclamazione dello “stato degli ebrei”...


C’è chi, come me, dall’inizio di questa nuova “guerra” – dai giorni successivi al 7 ottobre, e non ha senso che si ricordi, per Israele e Palestina come per Ucraina e Russia, che “le cose sono cominciate molto prima”, tutte le cose sono cominciate prima – si è augurato una vera svolta, favorita dalla stessa inaudita portata del trauma subìto dalla gente d’Israele: un’offensiva diplomatica sui due stati, per una leadership democratica palestinese – perfino un’investitura a un leader che passasse dall’ergastolo alla presidenza, utopie che tuttavia succedono, sono successe. Bisogna adesso che facciamo i conti con alcuni dei successivi fatti compiuti. L’offensiva smisurata di Netanyahu ha cambiato i rapporti di forza in Libano a svantaggio di Hezbollah. Ha reso possibile il colpo di scena della fuga di Assad dalla Siria e della riconversione, pur se non conversione, di al Sharaa. Ha tarpato le ali all’Iran e alle sue ambizioni aggressive, messo alle strette il suo micidiale programma nucleare militare, e rafforzato di fatto le speranze della sua audace opposizione. Questi fatti compiuti sono, almeno finora – Netanyahu scalpita ancora per l’attacco finale all’Iran – altrettanti argomenti in favore di chi l’ha appoggiato senza riserve, e tuttavia oggi sente di non poterlo fare più.


Ho due argomenti a trattenermi ancora di qua dal chiamarlo genocidio. Uno è capzioso. Uno fondato, benché forse non risolutivo. Quello capzioso dice che le incertezze sulla definizione della carneficina e dell’umiliazione di Gaza come genocidio possono indurre a rivedere i criteri, forse affrettati, con cui abbiamo chiamato genocidio situazioni simili o anche meno terribili. Capzioso: ma è vistosamente vero che del nome di genocidio si è fatto un abuso tale da finire per banalizzarlo. L’argomento fondato è questo: in nessuno dei genocidi “classici” che ho elencato, in Armenia, a Srebrenica, in Ruanda, in Cambogia ci sono mai stati combattivi partiti d’opposizione, militari renitenti, folle di manifestanti tenacemente contrari, membri della popolazione decimata presenti nel Parlamento del regime persecutore o nei dibattiti pubblici. Nessuno può immaginare che durante lo sterminio nazista degli ebrei la casa di Adolf Hitler fosse quotidianamente circondata da manifestanti che chiedevano le sue dimissioni e la sua incriminazione. Né la casa di Pol Pot. Questo fa una enorme differenza. E fa un alleato in Israele. 

 

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